GUARIRE DA UNA PANDEMIA
di Antonio Ficarola
L’ideologia medica attuale investe molto sui concetti di “malattia” e “guarigione”, intesi come processi casuali e involontari, indipendenti quindi dalla volontà di pensare, sentire e fare, da parte del singolo individuo e della collettività,
Una tale visione dell’ammalarsi e del guarire, deriva dal primato della concezione illuminista dell’uomo macchina, che si guasta per caso e richiede quindi un intervento esterno.
D’altra parte, una concezione di questo tipo viene continuamente confermata dall’efficacia degli interventi esterni (come posso non considerarmi una macchina che va ad aspirina se questa elimina il mio mal di testa?).
Tuttavia essa viene confutata quando osserviamo che, in realtà, anche una falsa aspirina, conduce sei volte su dieci allo stesso risultato (effetto placebo).
Allora siamo indotti a pensare che forse non siamo solo macchine, ma possiamo influenzare il nostro destino con la nostra psiche, dialogando attraverso una mente e un cuore, con quel “noi” che è il nostro corpo.
Prima che il pensiero illuminista esaltasse la ragione scientifica e tecnologica, anche Ippocrate ebbe a dire: “ le malattie che sfuggono al cuore divorano il corpo”.
Se non ci allontaniamo, infatti, da quella angusta e meccanica visione di noi stessi, il nostro corpo, sano o malato, diventa, non il Sé amico da ascoltare per arrivare a leggere e interpretare un suo linguaggio dimenticato, fatto di primordiali segnali, fisici ed emotivi, ma solo la parte di noi cattiva da estirpare.
La tendenza attuale a evitare l’approfondimento della consapevolezza emotiva suggerita da un sintomo, è aggravata dalla velocità della comunicazione in rete, che non permette di darsi il tempo di valutare gli aspetti emotivi profondi di ciò che avviene in uno scambio comunicativo.
Oggi, al mancato ascolto, elaborazione ed espressione di un disagio fisico, la psicologia dà il nome difficile di Alexitimia, che può essere facilmente tradotto in“essere senza parole per le emozioni”. Una condizione che conduce al ristagno di quel processo di crescita personale che dovrebbe portare all’arricchimento della consapevolezza di una nuova fase di vita.
Se ci riprendiamo il diritto, il potere e la responsabilità di ascoltare i segnali di quel Sé amico, allarghiamo gli orizzonti di quel sapere su noi stessi, di quel “conosciuto non pensato” che ci spiegherà perché ci ammaliamo, perché ci impantaniamo nel male, perché guariamo.
Luis Chiozza, psicoanalista argentino, afferma che l’uomo si ammala perché “occulta a se stesso una storia che gli è insopportabile”.
Credo che ciò sia vero non solo per il singolo, ma anche per l’intera umanità.
Entrambi hanno bisogno di ritrovare un senso all’esistenza e così creano la pandemia e il suo mito.
E’ a questo punto che l’uscita nella guarigione si ricollega all’entrata nella malattia, allo stesso modo in cui uscire da una galleria è legato al modo di esserci entrati.
In altri termini sembra naturalmente obbligatorio, per ciascuno di noi entrare nel tunnel per fare il punto sul proprio destino.
La galleria è, metaforicamente, una parte buia di noi, sconosciuta a noi stessi, in quanto dissociata dal resto della personalità per gli effetti della difesa da un trauma.
Vi entriamo per riportare luce a quel percorso, vi entriamo perché siamo intenzionati a rivisitare la nostra vita e uscirne più interi, e un modo di ottenere questo è “stare” un po’ in quel buio, per conoscerlo e riprenderci quel che abbiamo perso.
La ricerca psicologica ci informa che più diventiamo competenti nel contattarci in profondità, meno abbiamo bisogno di fare ricorso alla malattia fisica che spinge ad entrare in galleria.
Una volta immessi in galleria accadono molti eventi.
Riscopriamo emozioni spiacevoli che avevamo archiviato (“sarò capace di sostenerle?”), facciamo i conti con la direzione che vogliamo dare al nostro progetto di vita (“voglio continuare a essere questo me stesso?”), valutiamo i vantaggi e gli svantaggi di vivere in questo mondo (“come continuerò a stare in un mondo che sembra in declino?) .
Costruire una nuova fiducia nell’essere umano, ciascuno con la propria responsabilità e il proprio Dio, è allora la condizione indispensabile da perseguire per continuare a vivere.
Solo allora, che la pandemia venga superata o no, ne usciremo vincenti.
“Dov'è la Vittoria?”
Da Sant'Ambrogio alla Meloni
Questa concatenazione di richiami inizia a Roma nel 382 dopo Cristo.
L'imperatore romano (anche se di famiglia era un pannone, il popolo che abitava allora nell'attuale Ungheria) Graziano, era cristiano anche se di confessione ariana, e “follower” d'un romano di famiglia romana, anche lui cristiano, ma DOC, addirittura vescovo di Milano, il grande “influencer” Ambrogio.
Costui pressava il giovane imperatore per portare avanti il processo di cristianizzazione della corte, primamente abolendo i residui di paganesimo sopravviventi nelle alte sfere. ”Ragazzo mio, son passati quasi sessant'anni da Costantino, e ancora gli imperatori rivestono la carica di pontefice Massimo della religione pagana! Bisogna dare un segnale forte di discontinuità col passato, tu, figliolo caro, devi rifiutare questa sopravvivenza di un culto tramontato, tu devi rifiutare ufficialmente questo titolo!”
E Graziano obbedì.
Subito dopo l'episcopo mediolanense riattaccò:” Non ti sei accorto che in Senato c'è ancora un'ara intitolata alla Vittoria, personificazione di quella riportata da Augusto contro Antonio, quasi quattro secoli or sono? Che su quest'ara si potrebbero svolgere sacrifici secondo il rito della religione politica e militare d'una Roma nella quale noi cristiani non ci riconosciamo più? Se sei cristiano, ordina l'asporto di quell'ara che profana ed offende la nostra fede!”
E Graziano, sprezzando i mugugni di molti senatori “romanisti” nostalgici della dea Roma, obbedì ancora. I padri coscritti, riunendosi tristemente nel senato deprivato di quel monumento, si chiedevano sottovoce : “Dov'è la Vittoria?”
Dopo poco più d'un millennio, dalla cattedra di filosofia dell'Università di Berlino, il prof Georg Friedrich Hegel insegnava:” Non esiste un organismo superiore per regolare i rapporti tra stati. Il solo giudice è la storia, con la guerra.
“Il suo tono trionfalistico strizzava l'occhio al suo re, quello di Prussia, il più militarista dei sovrani del tempo, il più probabile favorito della vittoria in un confronto sul campo.
Ancora una cinquantina d'anni e, nel 1847, a Roma, all'ombra di Mazzini e Garibaldi, i quali, con le armi delle camicie rosse, avevano fugato Pio IX e fondata la repubblica romana, un giovane poeta combattente, Goffredo Mameli, riecheggiava il “Dov'è la Vittoria?”
Mi permetto di riordinare il cronogramma della scena ristretta in quelle parole del suo “Canto degli italiani” e attuale inno nazionale che tutti conoscono.
“Dio crea la Vittoria con le fattezze d'una donna dai lunghi capelli, ponendola in condizione di schiavitù nei confronti di Roma, come dimostra il di lei curriculum di conquistatrice, finché è durato.
Oggi che, sullo slancio delle armi garibaldine impugnate da cuori uniti in fraternità, l'Italia si è destata dal sonno plurisecolare, professa la propria continuità con Roma con l'atto di cingersi il capo con l'elmo di Scipione.
E la Vittoria, in automatico, subentrerà al servizio della nuova padrona, offrendo la propria capigliatura alla stretta della nuova mano. “
Mi par evidente l'inevitabile riallacciarsi di questa intuizione alla situazione del 382, pur mutatis mutandis: Mameli riconsacra di slancio la divinità della Vittoria , non solo in quella mitizzazione del mondo classico ispirata dalla Rivoluzione francese, con le personificazioni viste, ma includendovi addirittura Dio- non Giove Capitolino.
Un necessario accenno, a Mazzini, il padre spirituale di Mameli. Oso pensare che il fondatore della Giovane Europa avrebbe criticata l'equazione “antica Roma-Italia contemporanea”, perché egli lottava per un ideale di nazioni sorelle, senza alcuna egemonia etnica o nazionalistica.
Nel 1891, esattamente quando i pruriti crispini d'imperialismo straccione stavano già facendo scorrere sangue e cigolare catene in Eritrea, un anonimo rivestiva di queste parole un coro della Norma di Bellini:
Roma il diadema italico
cingi all'augusta fronte
nido per sempre all'aquila
è il Palatino monte.
Il paroliere non è certo repubblicano, il diadema cinge la fronte d'un savoiardo, ma la tensione ad una proiezione invasiva dell'Italia nel nome di Roma emerge sinistramente nella simbolica aquila predatrice e nel “per sempre”: anche oggi l'Italia che voglia esser degna della sua radice romana deve ridurre in schiavitù la Vittoria, dovunque si possa trovare.
Neanche una generazione dopo, nel 1911, un altro savoiardo, Vittorio Emanuele III, s'allaccia l’ ”elmo di Scipio” ed imita fedelmente quel modello: come l'Africano Cartagine, lui attacca la Libia, montando l'ondata della retorica della “quarta sponda”.
Risultati: spargimenti di sangue italiano ed arabo, e “liberazione dal giogo turco” a suon d'impiccagioni, incarcerazioni, deportazioni, profanazioni, che rendono odioso a quei popoli il nome “Italia”, ed alimentano un'incessante resistenza.
Il fascismo -concepito nell'aura di forsennato nazionalismo postbellico scatenata dal mito dannunziano della “vittoria mutilata”- per essere si mostra ingrato verso Mameli, mantenendo la “marcia reale” sabauda come inno nazionale, per non urtare il re per cui in fondo Mameli è stato irriducibilmente un repubblicano, dunque un nemico politico. Ed è al suono d'essa che procede l'avanzata dell'impero di cartapesta, sia sulla sponda sirtica che su quella del mar Rosso, con Graziani e Badoglio mascherati da Scipioni, proseguenti la missione civilizzatrice di essi con altri mezzi, più moderni, bombardamenti aerei di tribù beduine o di capanne di paglia di villaggi con bombe italianissime, anche con gas, esecuzioni di massa per per fucilazione, soprattutto di giovanissimi. Dopo 7 anni di queste “vittorie” l'”impero” , così ben guidato dal Duce che s'era affiancato a Hitler ed Hiro Hito mettendosi in guerra dichiarata contro la Francia, la Jugoslavia, la Grecia, il Commonwealth, la Russia, gli USA, ed indirettamente altre potenze, si sfasciava, con la resa dell'ultimo nostro reparto in Tunisia, e dell'ultima guarnigione d'un forte fra le ambe etiopi, precedendo di qualche anno lo sfascio del regime.
Vediamo, finalmente, come la Meloni c'entri in questa concatenazione.
La denominazione “Fratelli d'Italia “ del suo partito prende le distanze dal “nocciolo duro” del messaggio di Mameli?
Non sembra. La sacralizzazione dei confini nazionali, esattamente come fossero stati creati da Dio, che era stata una delle cause scatenanti di quel tentato suicidio dell'Europa civile che fu la prima guerra mondiale, la sua appassionata esaltazione del Salvini salvatore della patria quando li riteneva violati dallo sbarco di qualche decina di naufraghi in pericolo di vita, il suo sorpassarlo “ a destra” quando gli consigliava di mobilitare la marina militare contro i gommoni, e finalmente il suo sovranismo provocatorio a 360°, perché offensivo contro singoli stati esteri, perché sprezzante dello spirito europeistico, perché strizzante l'occhio a tirannelli maltrattanti più che altri i loro stessi popoli, come Orban, parlano chiarissimo.
Con tutto ciò non voglio imputare a Goffredo Mameli ciò che non lui, ma altri hanno fatto.
Le sue travolgenti parole erano nate dallo slancio eroico di accendere coraggio e speranza, nelle anime di oppressi, quei poveri ragazzi ignari di combattimenti, prima che corressero, CON LUI , e non, come Hitler e Mussolini sottoterra o in fuga, incontro alle bocche degli “chassepots” del marescialle Oudinot , divenuto braccio armato dell'oppressore fuggito a Gaeta, Pio IX.
Sulle parole si può discutere. Sul sangue del martirio ci si inchina.
Pier Luigi Starace
L’eccessivo realismo produce cinismo che alimenta paure, senso di impotenza, spegnendo qualsiasi altra visione possibile di vita e di relazioni.
Tratto da “IL SOGNO E’ POTENZA DI REALTA” Gabriella Caramore
Diritti umani e rapporti tra Stati, se finisce l'era dei compromessi
di Sergio Romano
Corriere della Sera, 14 febbraio 2021
I diritti umani e civili sono sempre più frequentemente temi caldi delle relazioni interstatali. La morte di Giulio Regeni, vittima di un brutale interrogatorio della polizia egiziana, e le disavventure di Aleksej Navalny, protagonista di una delle più imbrogliate vicende russe degli scorsi anni, sono ormai delicati casi di politica internazionale.
In altri tempi i governi dell'Egitto e della Russia avrebbero invocato i privilegi della sovranità nazionale, avvolto la vicenda in un velo di silenzio e atteso pazientemente che i giornali si stancassero di parlarne. Oggi questo non è più possibile. Nel caso Regeni molti chiedono l'interruzione dei rapporti diplomatici con l'Egitto.
Il governo cerca di fare capire ai suoi cittadini che l'Egitto è un Paese amico con cui l'Italia ha interessi comuni da conservare e coltivare e che la morte terribile di Regeni coincide con una fase in cui quel Paese era minacciato da sanguinosi attentati dei movimenti islamisti (anche se questo non giustifica il comportamento del Cairo).
L'Italia può e deve chiedere all'Egitto maggiori chiarimenti, ma senza pregiudicare del tutto i rapporti tra i due Paesi. Le stesse considerazioni valgono per il caso Navalny. In altri tempi sarebbe stato un problema esclusivamente russo. Oggi le democrazie si credono autorizzate a dare lezioni di libertà e ad applicare sanzioni che nuocciono a chi le impone non meno di quanto facciano male allo Stato "punito".
In altri tempi i Paesi avrebbero fatto ricorso alle loro ambasciate per trovare compromessi che avrebbero smussato gli angoli e dato qualche soddisfazione a ciascuno dei due litiganti. Ma nel caso Navalny le ambasciate di Polonia, Svezia e Germania hanno deciso di riconoscere i dimostranti partecipando alle loro manifestazioni.
Quando la Russia ha annunciato che i diplomatici coinvolti nella vicenda sarebbero stati restituiti al loro Paese, il gesto è parso offensivo. Ma perché Mosca avrebbe dovuto continuare a ospitare persone che avevano preferito manifestare piuttosto che interloquire pacatamente con le autorità locali? I tre Paesi hanno sostenuto che i funzionari volevano soltanto documentarsi, ma la scusa non mi è sembrata convincente.
Sappiamo che il rispetto dei diritti umani e civili hanno oggi, nella società internazionale, una maggiore importanza di quanta ne avessero quando ogni Stato faceva una politica strettamente nazionale. Sappiamo quanto utile sia stato, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il lavoro dell'Onu, del Consiglio d'Europa (dove è nata la Convenzione Europea dei Diritti Umani) e di altre organizzazioni dedicate alla promozione di una maggiore amicizia fra i popoli. Ma se certe forme dogmatiche di internazionalismo umanitario finiscono per avvelenare i rapporti fra gli Stati, sarebbe meglio tornare a un maggiore rispetto delle reciproche sovranità. Forse correremmo meno rischi.
LA CRESCITA PUBBLICITARIA
Pier Luigi Starace
Un titolo talmente banale e fuori posto, da “Sole 24 ore”, che tenterà la curiosità di pochissimi. Che però, spero, si risveglierà fin dalle prime righe.
I miei primissimi ricordi pubblicitari risalgono all'estate '45, stazione Milano centrale, allorché, a pochi mesi dal crollo di quel brandello di Reich che era il regime di Salò, i liberatori yankee avevano affisso un enorme manifesto del dentifricio Chlorodont. Del '46 le prime pubblicità via radio, del motoscooter Lambretta e d'un digestivo. Dunque in tutto qualche centinaio di mq di carta e qualche oretta mensile di tempo, forse quattro gatti “creativi” in “pensatoi” all'ombra di Manhattan e della Madonnina.
Da allora la crescita del settore non ha avuto rallentamenti, anche quando decenni or sono il suo gran sacerdote, nel verbo da lui professato “la pubblicità è sacra”, perfino quando gli tagliava la parola a metà nei suoi interventi televisivi, ci aveva garantiti direttamente o no centinaia di canali attivi h24, si è andati oltre, ben oltre, con l'affiancamento del web, in una leadership esemplare per tutte le altre crescite.
In parallelo a questo trend, un altro : la dissacrazione di valori per innalzare proporzionalmente la sacertà dell'unico vero, quello monetario.
“Il pensiero di Nietzsche” 1 euro e 99.”” “ Un crocifisso di serie , 2 euro e 99”.
Lasciando sottinteso il prezzo che una donna deve pagare per essere se stessa mediante l'introduzione nell'intimo dell'intimo d'una striscetta assorbente.
Di più, la forzatura dei principi logici e le evidenze scientifiche, come a dimostrare che la pubblicità può andar contro anche a quelli e quelle: ”L'acqua che elimina l'acqua”. “Più sudi e più sai di fresco”.
Ancora, negli ultimi anni, ma sempre in crescendo di perfezionamento, l'impostazione vocale e psichica dei “pubblicitari”: un tono di voce confidenziale, modulato fino al sussurro, sofferto come nell'attimo d'un'autorivelazione suprema, di verità dell'anima, come del figlio alla madre, del fedele al confessore, dell'amante all'amata, conclusa esalando la formula salvifica :” ...vai su...punto.it”.
Invece io vado proprio su un altro punto, quello dell'impostazione di cui sopra.
Federico Rampini notava sobriamente, ma nettamente, l'affinità tra pubblicità e menzogna. Difficile trovare un'attività nella quale rinvenire un maggior numero di gradazioni di deformazioni spietatamente interessate e interessatamente spietate della verità in tutte le sue accezioni. Ed allora via con con la falsa sincerità, costruita in uno studio, quale contenitore formale della menzogna sostanziale da far ingurgitare ai consumatori. “Quanno uno s'acciacca 'a mano sur petto vo ddì che tt'ha ffregato”. Battuta d'un prete romano.
Forse inebriati dalla diluviale tracimazione della pubblicità, quelli che lo sono da qualunque cosa sia “trendy”, i politici, vi si sono immersi come pesci, ovviamente gareggiando fra loro nell'utilizzare il suddetto lato truffaldino di essa, risultando competitivi, in ciò, con i dittatori d'inizio '900. Quello, però, in cui li hanno strasuperati, sempre in campo autopubblicitario, è la frequenza di quell'atto, di quel rapporto con il pubblico. Lenin, Mussolini, Hitler interponevano settimane, o mesi, tra un loro discorso pubblico ed un altro.
Oggi gli adoratori della pubblicità non reggono più di mezza giornata senza lanciare un messaggio storico, una replica a qualcuno che li ha attaccati, una dimostrazione di essere “sul pezzo” h 24.
Per quanto io disprezzi qualunque forma di predizione del futuro, ne azzardo timidamente una: questi odierni “uomini rappresentativi” arriveranno presto
ai cinque messaggi giornalieri, ricalcando la prescrizione della preghiera islamica. Questi ”uomini di fede” nella pubblicità cercheranno di far capire al pubblico che, come per un musulmano è necessaria quella scansione del rinnovamento del proprio rapporto personale con Dio, così per un cittadino è necessaria la medesima frequenza per rinnovare il proprio rapporto personale col proprio leader.
Dimenticavo: e il tempo, l'energia , la concentrazione per il ”modificare la realtà” , da sempre oggetto del politico? Tempo perso, risponde il furbetto.
Furbetto come tutti quegli investitori di soldi in pubblicità, scatenati anche col covid, che credono d'aumentare così le vendite, mentre neanche raddoppiando la razione di “comunicati commerciali” si potrà spremere un centesimo di più da un numero sempre crescente di tasche vuote.
SENSO DELLO STATO
Pier Luigi Starace
Il vocabolario della lingua inglese Collins, traduce così il participio passato “trumped out”: ”inventato, falso”.
Solgenitsyn ha scritto:” Chiunque proclami una volta la violenza come metodo, è inevitabilmente costretto a scegliere la menzogna come principio”. La storia ci ha offerto in questi giorni, nel suo rovesciamento formale, una incredibile conferma sostanziale di questo assioma. Con Trump “Chiunque pratichi la menzogna come metodo, è inevitabilmente costretto a scegliere la violenza come principio”.
Dal 99% di varie forme di alterazione della verità nelle sue comunicazioni, calcolato da esperti giornalisti, e galleggiante sulle due immani menzogne del negazionismo del riscaldamento globale e della contagiosità del covid, è proceduta la menzogna dei brogli elettorali. Così indifendibile matematicamente che il suo spacciatore ha dovuto necessariamente scatenare la violenza per tentare d'imporla.
Autoproclamandosi promotore d'una insurrezione armata contro un potere dello stato, quello legislativo, Trump non solo ha sgarrato brutalmente da ogni tradizione di correttezza istituzionale, non solo ha violati precisi commi di leggi, non solo ha violentata spudoratamente la Costituzione Americana, della quale, infrangendo il giuramento presidenziale, avrebbe dovuto essere il primo difensore, ma ha demolito e trascinato nel fango il fondamento universale d'ogni istituzione, anche non politica: l'accettazione di regole. Difficile trovare nella storia un esempio di mancanza così radicale di senso dello stato in un politico, di così folle accecamento da volontà di potenza individuale da sovrapporsi ad una volontà collettiva stratificata nei secoli. Follia ravvisata e, con formidabile coraggio civile, denunciata ed affrontata istituzionalmente da Nancy Pelosi, che ha reso onore al proprio mandato ed alle proprie origini italiane. D'altronde non dovremmo meravigliarci troppo dell'assalto a Capitol Hill, come se esso fosse stato il passaggio dalla menzogna alla violenza. Tutta la “governance” di Trump nel suo insieme è stata animata dalla violenza, rivelandoci sempre meglio il suo senso dello stato. Mentre tantissimi tiranni capaci di crimini avevano fatto qualcosa di buono ed utile per le classi inferiori, Trump, nella sua ubriacatura di neocapitalismo sregolato, si è accanitamente dimostrato fedele all'oligarchia plutocratica che lo ha espresso, realizzando i suoi sogni segreti di “rimettere al loro posto” i “morti di fame”, in patria e fuori,e di raggiungere un nuovo stadio nella guerra di classe. Chiediamolo alle madri private dei loro figli al confine messicano, ai malati scippati per legge dell'assistenza sanitaria, agli afroamericani assassinati dalla polizia.
Per Jo Biden ogni decisione di governo sarà una terribile prova della verità.
oggi sento il bisogno di porre l’attenzione non solo alla pandemia da COVID che ci costringe a stare in casa ma anche a tutta quella gente che una casa non ce l’ha più.
Sto parlando di ciò che nessuno di noi vorrebbe mai essere: uno sfollato, un rifugiato, una persona costretta a lasciare la propria casa e a vivere in un campo profughi.
Vi propongo un reportage della giornalista Paola Nurnberg dal titolo Resilienza e Speranza, realizzato nel campo profughi di Ashti nel Kurdistan iracheno.
Angela Guion
A prima vista, il campo di Ashiti, alle porte di Sulaimaniya, si presenta come uno dei tanti campi profughi disseminati in Medio Oriente. È una grande distesa de tende dell’UNHCR, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, un simbolo che denota la presenza di ciò che nessuno di noi vorrebbe mai essere. Uno sfollato. I campi di Libano. Giordania, Siria, Turchia sono tutti uguali, perché in mezzo a quelle residenze che dovrebbero essere temporanee si annullano i riferimenti geografici. E in certi casi si annullano anche le identità.
Nel Kurdistan iracheno, l’emergenza è nuovamente esplosa nel 2014, con l’Iraq in guerra contro l’ISIS e un esodo di milioni di persone. Nel settembre del 2018 la crisi era in parte rientrata ma per chi ancora non può tornare a casa, l’esistenza si svolge tutta qui.
Ho sempre avuto una sorta di timore reverenziale a entrare in quegli alloggi, dove ad attirare l’attenzione spesso sono l’ordine e la pulizia che vi regna. Come se la povertà – ma questo forse è un pensiero condizionato che abbiamo noi occidentali abituati alla pace e al benessere – dovesse per forza essere associata alla sporcizia e alla confusione. La confusione per loro è piuttosto interiore: un ammasso infinito e informe di ricordi, di paure, di desideri che devono restare inespressi, in quella vita sospesa chissà per quanto e rivolta verso un futuro che non ha ancora nome e luogo. Nel campo di Ashti, alcuni sfollati lavorano nel Centro sanitario di Emergency. Come Murhad, logista che sogna di andare in Europa, e Nadya, che si occupa delle pulizie del Centro sempre tirato a lucido. Sono entrambi di etnia yazida ed è stata una lezione vedere con quanto orgoglio svolgono ogni giorno il loro dovere. Ma i profughi e gli sfollati in generale mi hanno sempre insegnato una cosa dal valore inestimabile: la dignità. Una dignità alimentata dalla resilienza e dalla speranza, forse, di un ritorno o di un domani che si può solo sognare.
Nel frattempo, però, si vede che la vita continua in quei campi, molti di loro hanno aperto delle piccole attività, dei negozietti, nelle loro tende. Qualcuno ha trovato un lavoro fuori dal campo e rientra la sera. La vita continua nella vivacità dei bambini quando gridano all’uscita da scuola e quando giocano nelle pentole impilate o nelle coperte piegate e riposte con cura che vengono tirate fuori la notte, quando quell’unico spazio in cui si vive anche in sei si trasforma da salotto in camera da letto. Ho sempre provato tanta curiosità per il valore degli oggetti di queste persone: potrebbero rappresentare tutto ciò che gli è rimasto, oppure essere solo cose, la cui funzione si esaurisce tutta nel loro utilizzo. Vivono così migliaia di persone che un giorno, forse da un paese europeo, racconteranno quello che hanno passato a qualcuno che non può immaginare. Negli ultimi anni ne ho incontrate tante, ho dentro di me il ricordo dei loro sguardi stanchi, ho provato a immaginare la fatica di quelle vite in cui gli inverni sono troppo freddi e le estati troppo calde. Ho visto mamme giovanissime e tanti figli, e nei bambini molti sorrisi e un’allegria talora inspiegabile. Li ho guardati giocare nel fango anche quando fuori è il gelo, o sotto il sole cocente quando il suolo diventa polvere che si respira. Mi sono chiesta tante volte dove trovassero la forza, e la risposta più ovvia è stata che forse riescono ad avere speranza quando vedono che c’è chi li aiuta davvero. L’aiuto umanitario, in quei contesti, è praticamente tutto.
Paola Nurnberg
Auguri
Il gruppo che si occupa dell’ascolto dei ritmi della natura e li trasforma in espressione artistica vi porge come dono questa immagine dell’INVERNO e l’augurio di Buon Natale.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto…
…in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità
…
Ma l’illusione manca…
…s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
E. Montale
Giovanni 1, 43-46
43 Il giorno seguente, Gesù volle partire per la Galilea; trovò Filippo, e gli disse: «Seguimi». 44 Filippo era di Betsàida, della città di Andrea e di Pietro.
45 Filippo trovò Natanaele e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti: Gesù da Nazaret, figlio di Giuseppe». 46 Natanaele gli disse: «Può forse venir qualcosa di buono da Nazaret?»
Perché questo pregiudizio da parte di Natanaele?
Nazaret era un piccolissimo villaggio collocato in Galilea, terra malfamata politicamente e religiosamente. Politicamente perché regione ribelle, dalla quale provenivano molti elementi della guerriglia antiromana, che oggi chiameremmo «terroristi»; religiosamente, perché terra di confine, di religione mista, nella quale c'erano, sì, famiglie di ebrei osservanti (come Maria e Giuseppe, che salivano regolarmente al tempio di Gerusalemme per le grandi feste), che però convivevano con i pagani, e questo rendeva la regione impura. Da quella estrema periferia geografica e spirituale della terra promessa non può venir nulla di buono.
E invece è proprio lì che Dio manda il suo angelo ed è da lì, dalla periferia, che Dio comincia a scrivere la sua storia nuova.
Ci sono molte periferie e molti tipi di periferia. Penso, ad esempio, alle periferie sociali, così drammaticamente presenti anche nel nostro paese: la grande periferia dei cosiddetti «extracomunitari», e al suo interno quella dei cosiddetti «clandestini» (per Dio non ci sono clandestini), cercati da quelli che li fanno lavorare in nero sfruttati, e braccati dalla polizia che li rispedisce nei paesi da dove sono fuggiti.
Penso alla periferia umana costituita da tante persone che conoscono il «mal di vivere» materiale, psicologico, affettivo, i perdenti, quelli che non ce la fanno.
Penso anche alla periferia della fede, cioè alle tante persone che vivono sul confine tra fede e dubbio, tra speranza e scoramento, tra il vecchio che non passa e il nuovo che non nasce.
Ecco, Dio ha mandato il suo angelo ad annunciare il Natale in periferia. Celebrando il Natale, celebriamo il Dio delle periferie.
E più facile incontrarlo lì che altrove.
A volte viene da pensare che la razionalità non appartenga alla politica.
Capita ad esempio nel caso della recente proposta di alcuni parlamentari di togliere l’IMU sulle seconde case e di introdurre un’imposta patrimoniale per chi detiene una ricchezza superiore ai 500 mila euro. In altre parole, si propone di abolire una tassa patrimoniale e di metterne un’altra.
La ratio è che i possessori di una seconda casa potrebbero anche non essere ricchi, mentre chi ha più di 500 mila euro di patrimonio sicuramente non è povero. In effetti il ragionamento è logico. Pertanto, se questa proposta venisse approvata, ne avrebbe un vantaggio una parte del ceto medio, mentre a perderci sarebbero i più ricchi.
Tuttavia ci si potrebbe chiedere se sia equo - oltre che eticamente corretto - tassare i patrimoni a prescindere dalla loro provenienza. Un’imposta patrimoniale dovrebbe tener conto della congruità del patrimonio con la media dei redditi dichiarati dal proprietario/detentore, calcolata su un arco di tempo sufficientemente lungo. In questo modo il peso della patrimoniale ricadrebbe principalmente sui patrimoni incongrui, cioè quelli degli evasori fiscali.
Ma di che cifre stiamo parlando? Per chi ha un patrimonio di 500 mila euro si tratterebbe di una nuova imposta di 1.000 euro (lo 0,2%), che potrebbe diminuire sensibilmente nel caso del possesso di una seconda casa. Insomma, questo contribuente potrebbe perderci circa 500 euro, cioè l’1 x mille del suo patrimonio. Non sarebbe contento, ma certo non andrebbe in fallimento per questo.
Eppure, questa proposta ha incontrato la netta e persino feroce contrarietà di quasi tutti i parlamentari, di maggioranza e di opposizione. C’è chi addirittura ha gridato alla “rapina di Stato”. Ci si dimentica che l’art. 2 della Costituzione di questo Stato stabilisce che tra i doveri inderogabili c’è la solidarietà economica. Non è il momento - si obietta - perché siamo in una situazione di crisi. Appunto: è quando si è in crisi che chi ha di più, dovrebbe fare uno sforzo in più. I più facoltosi potrebbero dare un contributo utile per compensare l’aumento delle spese sociali e sanitarie, causato dalla pandemia, a favore delle casse dello Stato di cui fanno parte.
Si tratta di un ragionamento elementare e ragionevole, ma che non trova spazio nell’attuale confronto politico. Prevalgono palesemente la propaganda e la demagogia. È a tutti noto che il debito pubblico italiano è in forte crescita, mentre la ricchezza privata corrisponde al quadruplo del debito dello Stato. Che cosa c’è di male, se in questa situazione i più benestanti danno una mano agli altri cittadini che si trovano più in difficoltà?
«Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: ”Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui. “Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”. Ma il Rabbi diede lui la risposta alla domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”.
Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova e dove ci si trova realmente, dove si vive e dove si vive una vita autentica. Se instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato… allora lasciamo entrare Dio» (M. Buber, Il cammino dell’uomo).
A volte la realtà ci sembra troppo piccola e banale, altre volte troppo insignificante la vita di tutti i giorni: solite persone, soliti problemi, solite difficoltà. Eppure è proprio questo il «piccolo mondo che ci è affidato» del quale dobbiamo aver cura, in cui dobbiamo accendere un brivido di vita vera. Inutile e fuorviante cercare altrove: quella è la porta attraverso la quale dobbiamo far passare l’infinito con i suoi sogni e le sue speranze. Anche se a volte ci sembra difficile.
Rendere sacri i piccoli luoghi che abitiamo non significa costruirci intorno altarini o cappelle votive. Renderli sacri vuol dire semplicemente scaldarli con una scintilla di amore e di passione vera. Questo ci è sempre possibile. Sempre e con chiunque. Soprattutto con chi ha pochi o nessun motivo per amare la vita.
La casa è il luogo della vita “vera”. È il luogo del disordine o dell’ordine maniacale, il luogo dove si mettono a nudo i nostri bisogni: lì arrivano i giorni delle lacrime e tornano i figli prodighi, lì si racchiudono l’ansia e il desiderio delle nostre speranze.
La nostra banale e monotona vita quotidiana, tormentata dalle preoccupazioni e inaridita dalla percezione dei nostri limiti, è alla continua e strenua ricerca di senso: eppure nel piccolo cerchio di mura della nostra casa, nei mille frammenti delle nostre giornate, nel groviglio delle nostre relazioni, è lì che si nasconde il senso pieno della nostra esistenza.
Nel cuore della vita di tutti i giorni, proprio là dove l’uomo vive e spera e dove scorre il suo tempo, proprio là possiamo intuire una presenza di luce, e là ci sentiamo mendicanti.
Ciò che cerchiamo non è distante come un paradiso vago e lontano, ma ci è accanto, abita in noi, è parte del nostro quotidiano: basta solo un po’ di attenzione, un po’ di passione, quel minimo di capacità di ascolto che raggiunge la fecondità di un gesto, di un dono, di un piccolo amore. A volte la verità delle cose essenziali ci è tanto vicina da diventare per noi quasi invisibile, e ci sfugge.
Un tempo Rilke scrisse: «Se la tua giornata ti sembra povera, non la accusare; accusa te stesso, che non sei abbastanza poeta da evocarne le ricchezze», come dire che siamo noi a rendere povero e meschino un tempo o un luogo se siamo senza fantasia, senza sussulti, senza capacità di lasciarci sorprendere.
La tenerezza di Dio si intreccia nei fili della nostra trama quotidiana: il suo Regno si nasconde nel granello di senape, nel pizzico di lievito, nel minuscolo seme. Roba, insomma, di tutti i giorni.
Una conferma al racconto chassidico di Buber l’ho trovata in un detto di Eraclito riferito da Aristotele, ma riportato anche da M. Heidegger. Alcuni stranieri desideravano incontrare l’autore di Le Storie. Avvicinandosi, furono sorpresi dal vederlo mentre si riscaldava a un forno. Leggendo nei volti dei suoi visitatori la curiosità delusa, Erodoto fa loro coraggio e li invita espressamente ad entrare, con queste parole: ειναι γαρ και ενταυθα θεους («Gli dei sono presenti anche qui»).
Sono parole che pongono in un’altra luce il soggiorno del pensatore e il gesto semplice del suo riscaldarsi al fuoco del camino. Il racconto non dice se i visitatori abbiano capito subito queste parole. È evidente però il messaggio che Erodoto intende trasmettere: «Anche qui – presso il camino, dove ogni cosa e ogni pensare è familiare – persino qui … gli dei sono presenti». E in un altro frammento (fr 119), lo stesso Eraclito afferma: Ηθος ανθρωπω δαιµων, «Il soggiorno (solito) è per l’uomo l’ambito aperto per il presentarsi del dio (dell’in-solito)».
Creare una pandemia.
In un suo saggio, apparso sui social alcuni giorni fa, Alessandro Baricco definisce l’attuale pandemia “quel che stavamo cercando”, pensando ad essa in un modo che va oltre il suo significato di emergenza sanitaria, e considerandola una “costruzione mitica”, creata dall’umanità di cui ciascuno di noi è parte.
Confortato dalla visione psicosociale che lo scrittore presenta del fenomeno, mi permetto di aggiungere alcune considerazioni che ci aiutino a dare alla pandemia un significato che esca dal contesto strettamente medico in cui è ossessivamente relegata.
Le espressioni “quel che stavamo cercando” e “costruzione mitica”, usate da Baricco, presuppongono che l’umanità abbia creato la pandemia e che in questa creazione si sia posta un obbiettivo.
Significa che siamo stati cattivi e ci siamo meritati un castigo? Significa che aspiriamo a costruire un futuro distruttivo?
Nulla di tutto questo, siamo fondamentalmente buoni, ma la verità è che l’umanità ha bisogno di costruire eventi da cui imparare ad evolversi verso la crescita e il maggior benessere.
L’umanità, come il singolo individuo, crea, essa stessa, le occasioni che le consentano di rivisitare il progetto di vita futura che sta impostando e di poter riscrivere il suo destino.
E’ questa la funzione, spesso inconsapevole per gli individui, di una “costruzione sociale” o “costruzione mitica”, di creare cioè un evento “mito” che attraversando le coscienze non passi inosservato, che attiri perennemente un’attenzione vigile, che faccia da punto di riferimento nella propria memoria storica.
Sono costruzioni sociali le epidemie, la malattia individuale, la guerra, il terrorismo e tutto ciò che ci obbliga naturalmente a fermarci a riflettere e a cambiare, in modo da proseguire più attrezzati il viaggio, come individui e come specie umana.
Oggi, come nel passato, un “inconscio collettivo” ha valutato una necessità e scelto il momento più giusto per fornire a ciascun “inconscio individuale” l’occasione per una creazione mitica, una nuova malattia che ha approfittato di un virus passato per caso.
Aprire le porte a quel virus è stato il suggerimento di una parte di noi ad un’altra, per un principio secondo il quale, come afferma Baricco, esiste “un contagio delle menti prima che dei corpi”.
In un altro periodo storico l’umanità non sarebbe stata “esposta” a questo evento e la pandemia non si sarebbe verificata, il virus non avrebbe avuto ospiti umani “compiacenti” per replicarsi e trasmettersi.
Oggi invece un “saggio” inconscio ci depriva delle giuste difese immunologiche e ci informa, con la malattia conclamata, di uno squilibrio esistente tra ciò di cui l’uomo ha bisogno e gli manca e ciò che si concede di inutile, tra il vuoto e il superfluo del troppo pieno.
Il vuoto che la pandemia segnala è una mancanza di contatto umano profondo e di confronto esistenziale intimo tra persone, oggi difficile da “rischiare” perché sostituito dal contatto più superficiale che avviene nei social e dall’obbligo a condividere idee e valori globalizzati, non vissuti e non partecipati.
Il superfluo è la ricchezza fine a se stessa e mal distribuita, che porta a inventare piaceri inesistenti da una parte e criminalità o grosse privazioni dall’altra, è il senso di potere di una eccessiva tecnologia avanzata che fa sentire forti ma, paradossalmente, senza difese e delusi di fronte a un virus ultramicroscopico.
Il vuoto e il superfluo, passati inosservati nelle menti degli umani, avevano bisogno di uscire allo scoperto e il mezzo migliore che la Natura ha escogitato per portarli alla coscienza è stato la pandemia.
Essi sono diventati così vissuti coscienti delle persone malate di Covid, che stanno mirabilmente e inequivocabilmente fotografando la presenza delle due condizioni in una lezione impartita dalla pandemia: l’isolamento della quarantena informa sul vuoto di contatti umani (“vedi, questo è quello che stai facendo della tua vita”), il senso di impotenza e di dipendenza tipici di questa malattia evidenzia l’assenza di potere personale e l’esaltazione del potere della tecnologia (“vedi,contro il virus non puoi nulla e con te stesso non sei così potente!”).
Intesa in questo senso, una costruzione sociale non può condurre a un ritorno alla “normalità” ma a un superamento di ciò che etichettavamo come “normalità”. Essa tende a produrre consapevolezza, differenziazione dalla norma e più unione nella diversità.
Il modo in cui una costruzione sociale permette di ottenere tali obbiettivi è quello di esporre gli individui ad una scelta: cercare, trovare e riconoscere dentro di Sé le risorse per il superamento della crisi e l’affermazione di un nuovo potere personale, oppure “decidere” di uniformarsi a degli standard, con il rischio di soccombere e di essere scartati da un processo di selezione naturale.
Come afferma Baricco “..ogni vivere è frutto di un lutto”.