DEMOLITION
WAR E VOLONTA' GENOCIDA
Alcuni
saranno stati d'epoca socialista, altri dell'ultimo trentennio d'indipendenza,
quegli edifici di dieci-quindici piani,non “towers” private, ma abitazioni
popolari sfruttanti la verticalità per evitare il consumo del suolo, ora
all'incrocio tra quei lunghissimi rettilinee delle strade ucraine, ora alla
periferia, ora all'interno delle città. Immagino con commozione le prime
generazioni assurte dal contatto con la terra dell'izbà a quei piani alti, da
ognuno dei quali, in progressione ascendente, si poteva abbracciare una
superficie più vasta del giallo oro della sterminata pianura, una parte più
estesa di patria, sotto il blù
squillante del cielo.
Ora
tanti di essi sono stati sfrontati, smembrati, sventrati a capriccio della
bomba termica, del missile, del proiettile d'artiglieria che li ha urtati o
trapassati o centrati.
Nulla
sarebbe più luttuosamente squallido
delle graticole nere delle facciate rimaste in piedi, se non ci fosse lo
spettacolo degli interni, in cui fotografie di famiglia su un tavolo sono
sommerse da calcinacci, frammenti di vetro di finestre o lampadine frantumate.
Ma
anche abitazioni più umili, izbà d'altri tempi , sono state scoperchiate, le
pareti in parte abbattute ed in parte diroccate, la furia chimica e minerale
degli esplosivi è stata incanalata direi meticolosamente anche alla distruzione
delle aie, stalle, pollai, conigliere,
orticelli.
Impossibile
liquidare questo come “demolition war” e basta, come l'abbiamo sperimentata noi
stessi da parte alleata. Sarebbe un'infame viltà intellettuale non
chiedersi
se quest'orgia distruttiva, ufficialmente spacciata da Mosca per una specie di
operazione rieducativa d'un popolo riottoso, non sia che l'involucro, micidiale
è vero, ma solo involucro, d'una volontà genocida di fondo, d'un unico disegno
criminoso soggiacente, col vincolo costante della continuazione e
dell'aggravamento, al bombardamento
d'abitazioni civili. Il quale,
non dimentichiamolo, è sempre e comunque un crimine di strage o tentata strage.
Volontà
che si sostanzia inoppugnabilmente in altri comportamenti dell'aggressore: il
primo dei quali la ripresa del bombardamento dopo la fine annunciata dalla
sirena, allo scopo di, eliminando i soccorritori delle vittime, ottenere un maggior numero di morti fra i colpiti
dalla prima ondata, a causa del forzato venir meno di soccorso. In questa
ottica s'inserisce il bombardamento metodico
degli ospedali . Meno medici e strutture, tanti più morti dissanguati. La messa fuori servizio d'impianti idrici,
energetici, di rifornimenti come supermercati, il tiro al bersaglio contro le
code di persone in attesa d''una distribuzione di cibo, tutto ciò dichiara una
precisa volontà: chi è sopravvissuto alle armi, deve esser eliminato con la
fame, intorno a lui l'ambiente deve essere invivibile. Sotto apparenza non rumorosa serve
efficacemente alla volontà genocida ogni
rinvio, sospensione o blocco di corridoi umanitari: tutta quella gente
potrebbe tornare, ed è meglio impedirlo preventivamente, costringendola sotto i bombardamenti, che faranno un bel po' di pulizia. Ma anche
l'avvio d'un convoglio del genere non osta alla soluzione finale per i
volenterosi del genocidio: si può sparare da trincee lungo la strada ad autobus
o auto cariche di vecchi, donne e bambini, oppure, più facilmente, bersagliare
di quelli che scappano a piedi. Le stragi indiscriminate di civili, soprattutto
i più deboli, o politicamente
discriminate, nei luoghi “liberati” dall'armata russa. Una manifestazione
irrefutabilmente chiara di volontà genocida è nell'accanimento illimitato nella
demolizione di reparti maternità, asili nido, scuole, palestre: i bersagli
prioritari dell'operazione devono essere i bambini e i ragazzi, perchè loro
saranno i nemici di domani. Sacrosanta è la pertinacia di Zelenski nella conta
dei bambini massacrati.E potrei continuare.
Infine,
quello che è spudoratamente proclamato e che nessuno può smentire è il
genocidio culturale. Parchi, statue, monumenti, teatri, chiese esaltanti la storia ucraina devono e
dovranno cambiar nome, o esser abbattuti e rimossi.
Permettetemi
un'evocazione storica. Questa straripante eppur coordinata ed efficiente
volontà genocida sembra suggerita a Putin da un lancinante desiderio d'offrire
una vendetta agli zar Caterina II e Paolo.” Voi avevate “regalato” delle città
come Novo Rossii ( oggi Nipro) e Odessa a questi barbari, e loro vi ringraziano
inventandosi un'autonomia, e nel segno antirusso. Ma ora io vi vendico, fino a
che il potere russo non sia riaffermato in Ucraina, a costo d'una sostituzione
etnica fondata sul genocidio”.
E le sottili disquisizioni linguistiche,
giuridiche, politiche e “tecniche” con
le quali oggi si bacchetta chi usa questa parola nei confronti del dello scatenatore
di queste stragi e massacri le lascio a Enrico Mentana ed imitatori.
Pier
Luigi Starace
RICERCA
DELL'ORO
Immerso
nel flusso mai visto d'informazioni su
una guerra, mi sento ora nella funzione d'un cercatore che, dal
materiale trascinato scarta tutto, meno le tracce, i granuli, la pepite d'oro.
In
altre parole sento il bisogno, per quando l'alluvione d'immagini, travolte e
contese dalle correnti concorrenti o
confliggenti delle “narrazioni”sarà cessata,
allontanare, rimuovere, magari con rabbia, ciò che ritengo meglio
dimenticare, e salvare, isolare, proteggere e fissare per più tempo possibile
nella memoria ciò che a me, a pochi, o a tanti sia sembrato o sembri degno di
ciò.
Finalmente:
raccogliere come fiori meravigliosi, nati sul ciglio d'abissi strapiombanti su
crateri in eruzione o su ghiacciai senza vita, manifestazioni di forza morale e
d'umanità sbocciate, quasi in sfida suprema, a fior della disumanizzazione bellica.
Il 25/2, primo giorno dell'aggressione di Putin, a Nipro, l'ospedale centrale della città era letteralmente avvolto da una coda ordinata di donne. Dalle loro posture qualcosa di diverso e superiore rispetto alla stanchezza rassegnata di quella condizione tracimava a tratti dal profondo, una dedizione intima, un'oblazione irreversibile, una determinazione pensosa e grave.
Aspettavano
il proprio turno nella donazione del proprio sangue per i quelli che fra poche
ore ne avrebbero avuto bisogno, i loro fidanzati, mariti, figli, pronti a
versare il loro in prima linea.
Per
un attimo ho rivissuto il brivido provato contemplando “Il giuramento degli
Orazi”, di David, ad una mostra romana. Il sangue dei miei 16 anni d'allora
pulsava più forte man mano che , con lo sguardo, penetravo nell'anima dei tre
eroi, tesi nella promessa di vincere o
morire.
Proprio
come il mio sangue d'oggi, scorrendo con gli occhi la fila delle eroine.
Ancora
di quei giorni, un breve filmato: stavolta riproduzione esatta della situazione
del quadro del pittore francese.
In
un orto di campagna, sulla destra, un bambino sui cinque anni, con un bastone
forse tratto da un ramo d'albero, che, con parole di comando, ordina dei
movimenti a tre altri bambini, davanti a
lui, un po' più piccoli, il più piccino avrà tre anni, anche loro con un
bastone.
Il
timbro di voce dell'”istruttore”, lo scatto dei suoi movimenti, il ritmo martellante
in cui si dipanano, plasmano senza la minima sbavatura il timbro di voce delle
risposte, la rapidità dello scatto, il ritmo dell'esecuzione degli altri tre.
Cerco,
invano, seguendo il più piccino, di sorprendere in lui un segno, per quanto
impercettibile, di minor forza, d'incertezza, di smarrimento. Niente.
Sento
echeggiare nelle fresche voci le parole dettanti i movimenti: slava Ukrainy.
gheroi slava. “Gloria all'Ucraina, agli eroi gloria”.
Era il giuramento dell'esercito ucraino.
18/3/'22 Mikolaiv. Un brevissimo spezzone. Dalla scalinata d'un budello cementificato afferente dal sottosuolo dove s'annida un rifugio, salgono dei militari, intuisco dalle barbe che sono ceceni.Uno di essi, un colosso, dal viso rubicondo di montanaro, stringe una neonata ucraina al petto. Mi par di vedere che l'innocente non è turbata, che percepisce solo il calore di quel torace rassicurante, quel calore di paternità che, più forte d'ogni altro istinto, dilaga nelle fibre di quell'uomo, che deve aver tante volte preso in braccio così i suoi figli, e trova naturale il farlo anche lì ed allora. Forse lo conforta in quel momento il ricordo di qualche insegnamento ricevuto in una moschea, o che nei secoli i suoi antenati avevano ricevuto, che salvare una bimba è cosa gradita ad Allah.
Ma
lo spezzone finisce, lasciandoci soli con quella speranza.
Pier
Luigi Starace
IL
MODELLO RUSSO ATTIVATO IN MALI
Una
estrema sintesi introduttiva all'argomento.
Cronologicamente
quasi in contemporanea con la comparsa del covid, e politicamente per l'atteggiamento macroniano
di sorda e distante freddezza verso l'ex
“Sudan français”, era montata in Malì un'ondata diffusa di sentimento
antifrancese, non estranea al colpo di stato che aveva portato un militare al
potere, quindi a cacciata di diplomatici francesi da Bamako, con ritorsione di
Parigi, ed anche europea, tramite sanzioni contro il Mali, con motivazione
ufficiale del ritardo del nuovo governo maliano ad indire elezioni.
Sanzioni
scaraventate su un popolo quanto mai necessitante di sostegno, per esempio
dipendente, in campo sanitario, per 1/3 dall'estero.
Nelle
manifestazioni antimacron erano sventolate anche bandiere russe, ed era noto
ufficialmente che il governo golpista aveva assoldato come “istruttori” dei
bianchi inquadrati nel “gruppo Wagner”, l'esercito privato di Putin.
E vengo al punto.
Queste
settimane, in Mali, segnano il culmine della stagione secca, cioè
dell'innalzamento della temperatura, tra le 9 del mattino e le 17 per
sopravvivere bisogna stare all'ombra, corsi d'acqua, sorgenti, pozzi sono in
secca, le greggi brucano anche la sabbia, e tutti gli esseri viventi
s'avvicinano al Niger per non morire di sete.
Proprio
in un villaggio di quella zona, Moura, vicino alla città di Djenné, che era
sospettato di accogliere dei combattenti per uno stato islamico, probabilmente
composto da schegge delle tante sigle che combattono e si combattono colà, dal
23 al 31 marzo, esattamente negli stessi giorni che a Bucha, è stata condotta
un'operazione “antiterroristica”, con l'esercito maliano, ma “istruito” da
bianchi che generalmente parlavano russo. L'operazione è stata compiuta “under
western eyes”, nella persona d'una ragazza della ONG “human rights watch”, che
la ha descritta.
Era
giorno d'una fiera d'animali, con grande concorso dei pastori dei
dintorni.
Elicotteri
da guerra hanno prima bombardato le povere capanne, poi hanno inseguito le
famiglie in fuga mitragliandole
dall'alto. Quindi si è dispiegata
l'operazione delle forze di terra, con la direttiva di fucilare chiunque
portasse la barba ( facendo un fascio unico di chi fosse non islamico, o
islamico moderato, o affiliato ad una sigla ), o portasse pantaloncini (perchè
tipici dei militari)o parlasse la lingua peul (perchè questo popolo di pastori
del deserto, vittima maggiore della situazione di guerriglia, non si è
abbassato a leccare la mano a qualche protettore interessato). La strage, ben
organizzata dagli “istruttori”,
è
stata perpetrata a piccoli gruppi, lasciando a terra chi dice 209, chi 400
corpi.
Proprio
qualche giorno dopo, quando aveva parlato la testimone di Human rights watch” ,
questa ONG, insieme ad “Amnesty International” è stata espulsa da Mosca.
Ai
5000 crimini contro l'umanità,
contestati a Putin in Ucraina c'è
da aggiungere anche questo.
Pier
Luigi Starace
FEDELTA'
ANCHE NEI DETTAGLI
Nella
mia riflessione sulla strage di Bucha mi sono ricordato d'alcune righe di
“Cronache da due fronti” di Piergiacomo Sottoriva riguardanti l'operazione
“Strangle”, cioè l'attacco alla linea di difesa tedesca Gustav, avvenuto tra
l'11 ed il 20 maggio 1944, da parte
degli alleati, impegnando, tra l'altro, la V Armata USA ed il corpo di spedizione francese, formato,
a guida d'ufficiali francesi, da truppe tunisine, marocchine ed algerine. La
Wermacht schierava soprattutto i Panzergranadieren e reparti di fucilieri. La
zona dell'operazione interessava la fascia sud degli Aurunci, e gli abitati di
centri come Spigno Saturnia, , Itri,Castelforte.
L'attacco
travolse in 10 giorni la linea fortificata, e proprio in quest'ultima cittadina
avvennero molti degli scontri decisivi. Le truppe magrebine impegnarono quelle
germaniche in combattimenti addirittura stanza per stanza nelle singole case, e
le armi bianche dei primi si mostrarono più efficienti di quelle da sparo dei
secondi in quel corpo a corpo, costringendo i tedeschi alla ritirata. Fu
proprio allora che alcuni di questi ultimi, come atto estremo d'ostilità ,
piazzarono delle granate o altri esplosivi sotto i cadaveri dei nordafricani
caduti, in modo da nuocere a chi avesse voluto comporre o seppellire quei
corpi.
Un
attentato che sintetizzava, in uno odioso, i crimini di profanazione di
cadavere e di tentata strage.
E' quello che un altro esercito in ritirata,
quello russo, ha perpetrato alla periferia di Kiev, insieme
all'”abbattimento”di chiunque, dal vecchietto al ragazzino, trovasse sulla via
della fuga. come per professare, dichiarare, esibire orgogliosamente al mondo
la fedeltà devotamente pedissequa dell'armata putinesca al modello hitleriano,
il sigillo, oltre gli altri innumerevoli, dalla sua nazificazione.
Nel
rissoso, spesso velenoso, dissonante dibattito su questi crimini contro
l'umanità, che alcuni chierichetti della “correttezza” preaggettivano con
“presunti”, ho voluto cercare, con questo solo esempio, di far distinguere fra
da un lato il precedente storico,
documentalmente e testimonialmente confermato dalle immagini riprese e dalle
interviste di fonti terze, come ha fatto la nostra Francesca Mannocchi, e
dall'altro le montature costruite col capovolgimento della verità, in costanza
d'indefettibile fedeltà al mentire sapendo di mentire eretto a modo di
produzione di notizie, a task professionale, ad abito mentale-
a
modo di essere- come dimostrato generosamente da tutti i portavoce delle istituzioni
e dell'informazione moscovite.
Pier
Luigi Starace
STORIA DELLA BANDIERA UCRAINA
Per abbozzare uno sfondo storico all'attuale situazione di
rapporti internazionali
emersa da settimane con l'aggressione autodecisa da Putin
della Russia all'Ucraina,
mi sembra illuminante ricostruire sommariamente la storia
della bandiera di questa
nazione.
Il suo simbolo, presente sulla bandiera presidenziale, che
tutti abbiamo visto su
quella alla sinistra di Zelenski quando parla dal suo
rifugio, è il cosidetto “tridente
ucraino”: una stilizzazione con due punte laterali
identiche, poste specularmente, ed
una centrale, che si congiungono tutte e tre in basso, con
un intreccio di linee.
La prima raffigurazione di esso risale al primo secolo
avanti Cristo. La prima volta
che compare con una funzione politica è a Kiev, tra il 915
ed il 945, come sigillo del
principe Igor di Kiev, antenato di San Vladimir, in calce ad
un trattato con
l'imperatore bizantino.
La prima bandiera d'un territorio ucraino riferibile alle
successive, attuale inclusa,
appare nel 1410 come stendardo del voivodato di Rutenia (
odierna Ucraina
occidentale) sventolato nella battaglia di Tannenberg, della
quale tratterò alla fine
dell'articolo. In esso compaiono i due colori classici, il
giallo in un leone rampante,
ed un azzurro che diverrà in seguito blu.
Generalmente il giallo oro è stato interpretato come quello
del grano, ed il blu con
quello del cielo.
Potrebbe essere un aggancio con la successiva bandiera, in
cui giallo e blu listano
una figura di guerriero con tratti del volto, abbigliamento,
armamento
inconfondibilmente tatari, e che veniva sventolata, dal 1649
al 1764, dai guerrieri
dell'hetmanato cosacco del Don. Infatti i tatari, come i
mongoli, prima
dell'islamizzazione adoravano il Cielo.
Nel 1803 altri cosacchi, questa volta del mar nero,
innalzano uno stendardo
gialloblù, ma con una crocetta greca rossa al centro, che
oggi è sulla bandiera
dell'esercito ucraino, e, come tale, ma in grigioverde,
sulla maglietta militare di
Zelenski.
Nell'animazione del 1848 , a Leopoli,i patrioti ucraini
innalzano una bandiera con la
banda blu sopra e la gialla sotto.
Viene invertita la collocazione dei due colori in bandiere
di varie repubbliche fiorite
in Ucraina dopo la rivoluzione sovietica, tra il 1918 ed il
1923, quando quel simbolo
viene vietato dai russi, e, a partire dal '50, sostituito da
una bandiera rossa con falce e
martello giallo oro, con una striscia inferiore azzurro
pallido.
Solo dopo il '91 l'Ucraina postgorbacioviana può ritornare
ad innalzare i colori che
conosciamo bene.
Vengo ora alla battaglia di Tannenberg, perchè ricca di
vistosi richiami alla
situazione odierna, come rapporti d'alleanza o di forza fra
popoli e stati.
Fin dal 1220 i cavalieri teutonici, ordine
religioso-militare ovviamente tedesco,
avevano portato avanti un'operazione di conversione delle
popolazioni al di là della
Vistola, con la croce, ma preferibilmente con la spada,
ovvero, in concreto, una ost
-politik di germanizzazione di un mondo slavo. Popoli come
il polacco s'erano
cristianizzati, ma i bravi fratacchioni, tutti rigorosamente
combattenti di cavalleria
corazzata, non intendevano trattarli da cristiani, bensì
tenerseli sotto direttamente.
Allora, a guida polacca, si formò una lega, con cechi,
moldavi, bielorussi, russi di
Smolensk e di Kiev.Due sole forze non erano slave, i lituani
ed i tatari dell'orda
d'oro, cioè ancora degli abitanti dell' attuale Ucraina. I
teutonici a loro volta vennero
affiancati da truppe d'etnia germanica, provenienti
dall'Europa centrale, meno un
contingente ungherese, comunque il loro numero era inferiore
a quello degli
avversari.
La mossa decisiva dello scontro, che pare fosse stata
suggerita dal khan dell'Orda
d'oro, fu la ritirata strategica della cavalleria leggera
lituana sotto l'urto di quella
pesante teutonica. Quando i monaci armati ritornarono sul
campo a dar manforte ai
loro compagni dopo aver inseguito i lituani, questi ultimi
si erano riorganizzati, ed
irruppero lanciatissimi nella mischia.
I teutonici, che erano impegnati a fondo dai polacchi, se la
videro arrivare alle
spalle, furono circondati, ed il loro indubbio valore non
riuscì ad impedire il trionfo
della coalizione quasi panslava.
Fu una battaglia sanguinosissima, nonostante le armi
difensive molto robuste, il gran
maestro dei teutonici cadde sul campo, con molti dei diciamo
ufficiali. Il re polacco
Ladislao II fu ferito gravemente. Il numero dei morti è
stato molto dibattuto, ma al
minimo sui 15.000.
Questa battaglia rivelò all'Europa che gli slavi ed altri
popoli più settentrionali non
erano solo abitatori di capanne sparpagliate nelle foreste,
o di rassegnati agricoltori,
o di pastori delle steppe, ma sapevano organizzarsi come
potenza militare, ed
addirittura battere la macchina da guerra germanica.
Per non aver tenuto conto di ciò Napoleone, Hitler e
Mussolini si dovettero
mangiare i gomiti quando videro le loro disfatte alla
Beresina, nella sacca sul Don, a
Stalingrado.
Eppure un altro si sta mangiando i gomiti più di loro, per
non aver tenuto conto
dell'immane errore storico di essersi schierato, in una
possibile Tannenberg odierna,
nella metacampo dove allora erano schierati i cavalieri
teutonici, ma a capo di quegli
slavi che sono i russi, contro tutti gli altri popoli slavi.
Per non aver abbastanza valutato le possibili conseguenze
del tradimento della
comune origine etnica.
Per non aver tenuto conto sia della qualità superiore del
valore ucraino, sia del
pericolo che costituiscono per lui tutti i popoli slavi,
bielorussi compresi ( i quali,
nel caso che Lukascenko si lasciasse trascinare nell'
“operazione speciale”
passerebbero per il 99% al “nemico”), se la loro trattenuta
volontà di lotta contro il
traditore dell'unità slava s'incendiasse alla fiamma
dell'esempio dei difensori di
Mariupol e Kiev.
E c'è qualcosa di reale a confortare l'esistenza, la
qualità, l'efficienza sulla vita
associata di questo spirito di fraternità slava.
L'accoglienza straordinariamente
aperta, organizzata, infaticabile dei profughi da parte
degli stati slavi. Ancora una
volta, come a Tannenberg, a guida polacca.
Pier Luigi Starace
L'anticristo col giubbotto
L'anticristo, personaggio concepito nei secoli da una creatività cavalcante sia il destriero teologico che quello mitopoietico, ha assunto vari segni identificativi, a seconda di chi e quando lo abbia evocato.
Ma su una costante sono tutti d'accordo.
L'anticristo non è tenebroso, ma luminoso, anche se è il nemico della luce; non è repellente, ma attraente, come un angelo di Dio, anche se incarna il diavolo; agisce non in modo terroristico, e neppure sgradevole, ma piacevole, anche se porta verso la rovina.
E' su questa base, spero “teologically correct”, che voglio collocare la mia interpretazione della figura di Putin, iniziando con l'agganciarmi a quella sua esibizione in quella specie di spettacolo circense nel Colosseo della III Roma, in cui al posto d'onore c'era lui, l'imperatore, a quelli riservati i suoi cortigiani, sulle gradinate la plebe, e sull'arena- fuori campo- il vero spettacolo su cui i presenti esultavano : le stratificazioni di macerie, cadaveri, suppellettili di povere case, resti di missili e bombe sulle città ucraine.
In quell' “evento”la cui organizzazione traspariva una sintesi tra il meglio delle tecniche propagandistiche nazifasciste e staliniane, con una spruzzatina di quelle contemporanee per i grandi derbies calcistici e concertoni, Putin aveva lanciato, non solo non senza un tono di religiosa sacralità, ma addirittura di personale commozione interiore, sulla massa dannata all'ovazione forzata, una delle frasi più sublimi del discepolo che aveva più compreso Gesù, l'evangelista dell'aquila:”Non esiste un amore più grande di quello di chi offra la vita per i suoi amici”.
La superficialità d'obbligo dei cacciatori di scoops, il logoramento nervoso dei rimbambiti dalle proprie chiacchiere in non stop, la presenza scarsa e poco incisiva nel dibattito opinionistico ( a parte papa Francesco) di uomini di chiesa, si è lasciata scappare un'occasione quasi unica d'approfondimento: la formidabile innovazione che quell'intervento del presidente giubbottato apportava alla figura dell'anticristo.
Putin aveva superato d'un balzo ogni precedente narrazione dell'anticristo, nell'arrivare a mettergli in bocca le stesse parole del vero Cristo. Un perfezionamento, d'un'audacia inconcepibile fin'allora, della potenza falsificatrice, capovolgitrice della verità, immanente al personaggio.
Quelle parole che, sulla labbra del rabbi di nazareth, preannunziavano la propria personale immolazione, e la fissavano come esempio per un'umanità futura, governata da Dio, viene brandito dal presidente a vita come mistica sferza per avventare all'aggressione, motivare alla sopraffazione, coonestare, giustificare, legalizzare, addirittura santificare -assumendo in pieno il sacrilego “Gott mit uns” degli atei nazisti- la strage e la distruzione mirate alla cancellazione morale d'una identità storico-etnica, ed all'eliminazione fisica d'un popolo glorioso.
La mano trafitta del Crocifisso è pervertita in indicatrice al puntatore del bersaglio d'un asilo d'infanzia, d'una clinica ostetrica, d'una fila di evasi dal rifugio per un pezzo di pane, d'una macchina con una bandiera bianca ed una famiglia a bordo.
Solznitsyn aveva scritto:”Chiunque abbia scelto una volta la violenza come metodo, è inevitabilmente costretto a scegliere la menzogna come suo principio”.
Assioma validissimo per Putin, basti pensare alle stragi ordinate ai suoi “poliziotti” per metterle sul conto dei ceceni, anche qui fotocopiando l'Hitler delle notti dei lunghi coltelli e dei cristalli.
Ma per lui è valido, forse più valido, anche l'inverso:”Chiunque abbia scelto una volta la menzogna come metodo, è costretto inevitabilmente a sceglier la violenza come suo principio.” Infatti: chi è imbrogliato reagisce male, e tu devi usare violenza per calmarlo. Più valido, dicevo.
Perchè è quando lo si tocca sulla menzogna, rivelandola pubblicamente, che Putin avverte “il peccato che non sarà perdonato”, e fa scattare il “deve morire”, come, tra chissà quanti altri, hanno sperimentato la Politovskaja e Navalniy.
Pier Luigi Starace
INTUIZIONE
LINGUISTICA NON SERIOSA
-isco
è un suffisso di diminutivo trapiantato tale e quale dalla lingua greca (menisco, pietrisco).
Probabilmente
poco prima del '200, venne “allargato”, tramite la “e”, in -esco, e mutato di significato.
Non più “piccolo”( menisco vuol dire “piccola luna”) , ma “relativo a,
appartenente a, originario o proveniente
da”.
Tale
innovazione d'uso avvenne pressoché certamente in Toscana, ed a partir da
attorno il 1200. Esempio classico “francesco”, che non vuol dire “piccolo
Franco”, ma “proveniente dalla Francia”, ed era il panno costituente l'oggetto
del commercio dell'imprenditore assisiate Pietro Di Bernardone, padre del
fondatore dell'ordine francescano, e di chissà quanti suoi colleghi fiorentini.
Infatti
è proprio nell'urbe renziana che troviamo a partir d'allora una serie di
famiglie, e tutte di peso, esibenti questo suffisso, che, in ciò, viene ad
arricchirsi d'una sfumatura d'importanza, di distinzione nobilitante,
d'arrogazione di prestigio: Albizzeschi, Aldobrandeschi, Brunelleschi,
Pannocchieschi, Gentileschi, e mettiamoci anche il pisano Della Gherardesca,
cioè il conte Ugolino.
Che
ci serve come link per passare all'applicazione d'uso del suffisso dalle grandi famiglie alla sfera della creazione
poetica: dantesco, petrarchesco, boccaccesco, bernesco, boiardesco, ariostesco,
tassesco, ed a quella della creazione figurativa: giottesco, masaccesco,
leonardesco, raffaellesco, michelangiolesco, bramantesco, caravaggesco.
Il
lettore nota che entrambe le serie terminano con l'inizio del '600, quasi
tagliate da un colpo di mannaia, non potendosi allora ancor parlare di
ghigliottina.
Infatti,
per cominciar dalla prima serie, il poeta più affermato del '600 italiano,
Giambattista Marino, non mi risulta mai gratificato di quel suffisso dagli
studiosi successivi, come non lo furono
Giambattista Vico o Pietro
Metastasio.
Niente
-esco per la classica triade Parini, Alfieri,
Monti; come per la notissima Foscolo, Manzoni, Leopardi. Qui è forte la
tentazione di spiegarlo con il buon gusto dei critici: “foscolesco” avrebbe
presentata la cacofonia dell'accozzamento insieme nella stessa parola di due
“-sco” , “manzonesco” pareva calibrato per l'insegna d'una macelleria,
“leopardesco” per occultare il pallido profilo del contino recanatese sotto
l'immagine d'una scena di caccia tropicale. Me ne trovate uno solo tra tutti i
poeti e scrittori italiani fino ad oggi?
Seconda
serie, artisti figurativi. Dopo Caravaggio, identico vuoto, chissà, qualche
timido innamorato del settecento veneziano può aver aggettivato un cielo
“tiepolesco”, ma non ne ho la minima prova.
Non
parlo di scrittori stranieri, se non per giustificare chi non si è mai lanciato
nella creazione d''un “dostojevskiesco”.
In
definitiva oso chiedere perdono a chi legge per esser slittato dal “non
serioso”, nel “burlesco”.
Pier Luigi Starace
IL NANO CALUNNIATORE
Putin ha detto che il riconoscimento da Parte di Lenin all'autonomia delle singole
repubbliche sovietiche, e, in esso, anche dell'Ucraina, sotto lo zar incorporata alla
Russia, fu un “errore”.
Lo spioncello oggi mascherato da zar non ha approfondito il fatto che il fondamento
ultimo di tutta l'azione politica di Vladimir Uljanov, colui che aveva vissuta
l'eliminazione fisica del fratello su sentenza d'un tribunale imperiale, era stato un
radicale, irreformabile, irriducibile antimperialismo.
E se avversava quello absburgico e germanico, quello inglese, quello francese,
quello italiano, che definì felicemente “straccione”, l'imperialismo contro il quale
aveva lottato faccia a faccia fino ad estirparlo era stato quello russo, quello dello zar.
Ed allora non poteva che concepire la forma dello stato che stava costruendo con le
formazioni organizzate degli operai e dei contadini se non come repubblica, la
repubblica dei soviet.
E nessuna repubblica può esistere senza autonomia, non esistono repubbliche
subalterne, di secondo grado, commissariate da una superiore.
L'”errore” era stato causato dalla coerenza al proprio antimperialismo. All'ideale che
era necessario scagliare nel fuoco della rivoluzione sociale tutto il ciarpame
del mito della potenza, del dominio, del primato tra le nazioni, mito che fino ad
allora, anche nella santa Russia, aveva ferocemente organizzato lo sfruttamento
delle classi lavoratrici, con gli intermezzi nei quali le si mandava a morire più
efficientemente che col lavoro: le guerre imperialiste.
Eppure, con incredibile contorsionismo, Putin ha tirato fuori la parola “repubblica” ,
per mascherare, agli occhi dell'opinione pubblica, in tale struttura politica, delle
bande armate di mercenari fatte infiltrare clandestinamente nel Donbass, territorio
ucraino.
In altre parole Putin sta violentando la parola “repubblica” al punto di coonestare,
con essa, la propria guerra imperialista, più intollerabile in particola per il mondo
slavo, perché perpetrata da un popolo slavo contro un altro popolo slavo.
Seconda calunnia, talmente offensiva che farebbe saltare su anche un bambino di tre
anni: l'Ucraina non può vantare un'autonomia, perché non ha una tradizione
patriottica. Una provocazione da curvista di stadio, un seppellimento
vigliacco della memoria di tanti eroi ed eroine che nei secoli, o da liberi o da
schiacciati dal giogo moscovita, avevano nutrito fino ad oggi, un amor di patria
sempre rinascente come le erbe della steppa a primavera.
Terza calunnia, Putin ha osato imputare all'Ucraina la complicità con i nazisti.
Se è vero che alcuni nazionalisti fanatici, esasperati anche dalle spaventose
vessazioni staliniane negli anni della collettivizzazione forzata, erano ridotti a
preferire la Wehrmacht ai russi, fu la popolazione ucraina a subire, insieme alla
polacca, le più inenarrabili stragi d'ordine di Hitler. Si parla di decine di milioni di
assassinati, sui quali Putin glissa leggero come un pattinatore su ghiaccio.
Resterà nella storia la risposta del presidente ucraino Zelenski:” Mio nonno, ucraino,
allora, ha combattuto nell'Armata Rossa contro i nazisti!”
Concludendo Putin sta tentando spudoratamente d'usare la storia per la sua
operazione, questa sì di modello nazista, di capovolgere la realtà per presentare gli
aggrediti come aggressori. O non diceva Hitler che attaccava la Polonia per salvare
la pace in Europa?
E lasciasse in pace Lenin. Un nano diventa ancor più ridicolo quando s'atteggia a più
alto d'un gigante.
Pier Luigi Starace
L'INVERSIONE
MICIDIALE
Certi
libri di storia riportavano una semplicissima tabella su un aspetto della
rivoluzione industriale inglese. Due
serie di cifre, accoppiate, : la
prima indicava un anno, la seconda le ore giornaliere di lavoro in vigore in
esso.
Partiva
dal 1800, con accanto 15 ore, arrivava alle soglie del 1900 con 8 ore.
Tra
questi estremi tanti valori intermedi, comunque ognuno sempre minore del precedente.
La
tabella non riportava la forza che aveva spinto in avanti quel processo: quella
di quegli operai che, con riunioni, manifestazioni,comizi, scioperi, scontri sanguinosi, di quei
deputati che avevano raccolte, presentate in parlamento e votate le leggi che portavano
il lavoratore da un dannato a morire di fatica prima dei quarant'anni ad un
uomo che poteva sopravvivere, e per
anni, dignitosamente, con la
pensione, anche non lavorando.
In
una parola quel “trend” era stato verso una umanizzazione del lavoro, che anche
i regimi totalitari del '900, a parte i lager hitleriani e staliniani, ed in parte
lo stesso capitalismo USA non trovarono necessario contrastare, e che
era stata indicata da tutti i papi che si erano occupati di lavoro, a partire
da Leone XIII.
L'inversione
di cui parlo c'è stata invece dopo e,
lubrificata da paroline apparentemente innocenti- efficienza, flessibilità,
esubero-dall'ammorbidimento sempre più cedevole dei sindacati,
dall'innamoramento sempre più incontenibile dei partiti di sinistra per la la
mistica imprenditorial-aziendalistica, dalla riscrittura dello statuto dei
lavoratori da parte di “giuslavoristi” , come ufficialmente definiti, ma, da quello che hanno scritto, “giuspadronisti”, ha portato le ore di lavoro
a quelle che sono oggi, che ognuno di
voi conosce, e che domani potranno ancora crescere.
Inoltre,
sullo slancio di quella migratoria, un'altra ondata ha investito il mondo del
lavoro, quella del “lavoro nero”. Ed è qui che l'inversione di marcia ha
raggiunto livelli inconfrontabili col “lavoro in regola” nello sfondamento di
qualsiasi barriera protettiva della dignità umana. Le famose 15 ore del
tessitore del 1800 inglese rivivono nel terzo millennio tra i meloni o i kiwi
dell'agro veliterno.
Sono
venuto al punto, di cui al titolo: la micidialità di questa inversione.
Un
incidente sul lavoro ha sempre e comunque come causa o almeno concausa uno
stato di stanchezza. “Lavorare stanca”. Anche se questo titolo di Luciano
Bianciardi oggi farebbe storcere il naso perfino ai sindacati. Quello stato
psichico di lotta contro se stessi, di coraggio nel disprezzare la fatica, di
timore d'essere licenziato se non ce la fai, produce necessariamente un allentamento
dell'attenzione a ciò che sta intorno o anche vicino, un minor timore del
pericolo, o addirittura una sospensione temporanea del senso di esso. Condizione ideale per l'incidente. Che può
esser mortale quanto più la lotta è estrema.
Ora,
la lunghezza dell'orario di lavoro è fisiologicamente, ergonomicamente,
matematicamente causa di stanchezza estrema sul lavoro, quindi delle possibili
conseguenze.
Un
altro particolare. Sono incidenti sul lavoro a tutti gli effetti quelli
avvenuti per andare e tornare dal lavoro. Chi guida una bici, una moto, una
macchina ad un'ora impossibile, imposta dai turni schiavili del padrone, prima
dell'alba, ancora intorpidito e stordito dalla fatica non smaltita del giorno
prima, o a tarda sera, ubriaco della fatica della giornata, può perdere il
controllo, e non per sua colpa.
Non
ho scritto niente di strano o neppure nuovo, ma l'ho fatto perchè nel coro di
voci che si levano sulla “strage di lavoratori” non ne ho sentita nessuna tirar
fuori quanto ho cercato di dire qui.
Ovviamente
ritengo sacrosanto invocare le misure di prevenzione, ed a carico dei datori di
lavoro, i maggiori controlli degli ispettori del lavoro, gli interventi della
magistratura contro il supersfruttamento e privazione di diritti, per esempio
dei riders, ma ho cercato d'andare più a fondo.
PIER
LUIGI STARACE
Riflessioni su “scuola-lavoro”
Le recentissime manifestazioni studentesche in occasione della fine violenta dello
studente friulano in una fabbrica collaborante con un istituto scolastico
hanno per la prima volta fatto schizzare alla luce dell'opinione pubblica qualcosa di
tutt'altro che nuovo, su cui mi pare importante parlare seriamente.
Anni or sono ebbi occasione di entrare in un locale di lavoro in uno di questi istituti,
ed alla fine chiesi se gli studenti che vi lavoravano, e che con ciò producevano
qualcosa che la scuola vendeva ( in quel caso latticini) fossero retribuiti.
“No” mi risposero gli insegnanti.
In seguito ho saputo che tale rapporto di lavoro era diffuso a livello nazionale, non
so se sempre e dovunque: nel caso qualcuno volesse obiettarmi con casi in cui gli
studenti -lavoratori sono retribuiti, sarò felice di prenderne atto.
Una premessa.
Ritengo che questa integrazione pratica alla teoria sia, in sé e per
sé, indiscutibilmente ottima, perché nulla prepara ad una futura attività meglio della
pratica.
Il punto discutibile può essere invece: è giusto non retribuire un lavoro produttivo,
cioè che io studente-lavoratore investa il mio tempo e la mia energia per aggiungere
valore a dei materiali che tu istituzione venderai incassandone del denaro, e che io
non debba aver niente di quel danaro?
La spiegazione del “sì” che un economista potrebbe esprimere potrebbe essere:” E'
giusto, perchè l'imprenditore ti rende il servizio di prepararti al lavoro, e non vuole
neanche essere pagato, quindi zitto e buono”.
A questo punto il dibattito poterebbe continuare all'infinito, e quindi preferisco
chiuderlo, per calarlo da un mondo teorico al “qui ed ora”.
Qui ed ora, a partire da un livello sociale anche alto, è diffuso l'impoverimento, il
che vuol dire, ai livelli sociali più bassi, un passaggio dalla ristrettezza alla povertà,
ed addirittura dalla povertà alla miseria.
In altre parole sempre più famiglie cominciano a veder svuotato il portafoglio prima,
o molto prima, della fine del mese.
Se la famiglia ha un figlio iscritto ad un istituto superiore si trova davanti un
percorso ad ostacoli, in parte imprevisti, per superare ognuno dei quali deve pagare.
Libri voluminosissimi e costosissimi, in gran parte inutilizzati, tasse d'iscrizione in
crescita, quote per partecipare a gite scolastiche e varie altre iniziative. Se i figli
sono più di uno, la cifra x va moltiplicata.
L' unica misura ufficiale, per venir incontro alle famiglie meno abbienti, è quella del
rimborso delle spese per l'acquisto dei libri; per esperienza personale (non a
Velletri) soprattutto dopo le misure anticovid, le difficoltà di presentazione della
domanda e per seguirne l'iter, quindi di conoscere la durata del tempo per ricevere il
rimborso si sono dimostrate insuperabili, quindi questo ammortizzatore sociale
funziona poco.
A fronte della soprascritta serie di esazioni s'erge quel paragrafo della Costituzione
che sancisce la gratuità dell'istruzione pubblica. E, sulla base di questo così
disatteso, e non solo adesso, principio, mi sembra di buon senso cogliere l'occasione
dell'attenzione sul tema “scuola-lavoro” per riparare, almeno in parte, alla
situazione.
Esistono ministeri, e di grande peso, ai quali attingere una quota d'un anche
modesto salario a questi ragazzi: oltre al capofila, quello della Pubblica Istruzione,
quelli della attività produttive, dello sviluppo economico, e magari qualche altro.
La quota integrativa dovrebbe esser fornita dal datore di lavoro che fruisce della
prestazione dello studente-lavoratore. A parte tante ragioni di carattere morale,
civile, sociale, ce n'è una economica: quasi tutti gli imprenditori sono, come nota
Travaglio, “prenditori”, cioè fruitori di grossi aiuti statali che concorrono alla
formazione del loro profitto privato: ora che questo danaro pubblico, che è quello
delle nostre tasse, venga usato per un fine pubblico è inoppugnabilmente
cosa equa, socialmente utile, totalmente armonizzata a quel primato del bene
comune su ogni altra considerazione, che anima la Costituzione.
Ad uno sforzo di buona volontà che certo non manderebbe in malora lo stato-come
molti ancor più certamente salterebbero su a preconizzare- corrisponderebbe un
vantaggio collettivo difficilmente misurabile : il ragazzo che, se bencreato, sente
come naturale e necessario, a sedici-diciottanni, lo slancio d'esser elemento trainante
dell'economia familiare, di risparmiare al povero papà l'angustia della richiesta di
danaro, e non può farci niente, con questo anche piccolo salario potrebbe pagarsi da
solo la ricarica telefonica o l'abbonamento all'autobus per andare a scuola, offrire la
pizza alla ragazzetta,
comprarsi un libro interessante. Ed avrebbe anche la prova provata che la società, o
lo stato, o gli altri gli danno un valore, e non dovrà aspettare ancora chissà quanto.
Ed anche la famosa economia reale non avrebbe che da guadagnarci.
OSSERVAZIONI SU UN PUNTO DELLA LEGISLAZIONE ANTICOVID
Ho letto recentemente un interessante articolo di Giuseppe
Mommo, fondante la propria argomentazione su un principio di diritto dato per
scontato: la responsabilità penale è individuale.
Da qui muovo per passare ad altro argomento.
Il Decreto-legge del 21/9 /'21, N. 127, detta:” il personale..... privo della predetta
certificazione verde covid 19 al momento dell'accesso al luogo di lavoro...è
considerato assente ingiustificato fino alla presentazione della predetta
certificazione, e comunque non oltre il 31/12/'21....per i giorni d'assenza
ingiustificata non sono dovuti né retribuzione, né altro compenso o emolumento,
comunque denominati. “
Il Decreto-legge 19/11/'21, N. 165, detta ”Il personale privo del green pass al
momento dell'accesso al luogo di lavoro...è considerato assente ingiustificato e non
avrà diritto alla retribuzione o altro compenso fino al termine della cessazione dello
stato d'emergenza, previsto, ad oggi e salvo modifiche, per il 31/12/'21. “
Ciò premesso, a parte una contraddizione in termini nella considerazione di un
presente come assente, che si legge in entrambi i dettati, ed aggiornando sul termine
della cessazione dell'emergenza, che è stato già prolungato almeno al 31/3/'22, è
solo su un punto preciso che voglio portare l'attenzione.
Per forse la maggioranza degli impiegati, e senza forse dei lavoratori è abituale
arrivare a fatica a fine mese.
Tenendo presente ciò, e profittando del fatto che il primo DL citato è proprio di
settembre, il mese in cui incombono le spese per l'acquisto dei libri di testo, il venir
meno della retribuzione potrebbe portare, in caso di figli studenti, all'interruzione
della loro carriera scolastica, a tirare la cinghia negli acquisti alimentari, a disdire
impegni di mutuo per la casa o d'acquisti rateali iniziati, con relative conseguenze
anche sulla moglie .
Ad ottobre il nuovo vuoto porterebbe all'impossibilità di pagare le bollette di acqua,
luce, gas.
A novembre il terzo vuoto genererebbe necessariamente l'impossibilità di pagare
l'affitto, mentre solerti tecnici verrebbero a tagliare le utenze.
A dicembre il “salto” della tredicesima porterebbe già alla fame, mentre, magari per
Natale, diverrebbe esecutiva l'ordinanza di sfratto per morosità.
Dopodichè, a marzo qualcuno di loro potrebbe anche non arrivare, dopo una notte
sotto un cavalcavia o una rissa con altri homeless.
Il punto è questo: se è vero che quel lavoratore ha una responsabilità personale per la
sua renitenza, ergo in qualche modo, magari non così grave, può essere sanzionato,
quella moglie, quei bambini o ragazzi, quale corresponsabilità hanno nel
comportamento paterno, su quale fondamento giuridico devono esser puniti in modi
tanto degradanti?
Pier Luigi Starace
SCARCERAZIONE PER PATRIK ZAKI:
NEL SEGNO DELLA GRATITUDINE
E' nel segno della gratitudine che mi urge di esprimere il sollievo, la soddisfazione,
il rifiorire in me, insieme a tanti, d'uno slancio di speranza.
Gratitudine verso chi?
Una delle espressioni più frequenti, a volte anche a sproposito, sulle bocche degli
islamici è “Hamdu lillahi”, “Grazie a Dio”, proprio come su tante di abitanti del
nostro sud.
E quindi permettetemi d'iniziare da questa gratitudine, traducibile, per chi non abbia
fedi religiose, ma comunque un'anima identica a quella di chi le ha, in un nuovo
fluire di speranza nell'umanità in generale, nella vita, nella condizione umana.
Poi gratitudine per gli animatori e partecipi della varia galassia d'iniziative, oramai
reiterate senza stanchezza da venti due mesi, a favore di Patrik. E cito solo, fra mille
altre, quelle, superiori ad ogni elogio, della città di Bologna, con la punta di
diamante del suo millenario Ateneo, che ha dimostrato al mondo fino a che punto,in
un'istituzione scolastica, degli insegnanti possano divenire più che padri, e dei
compagni di studi più che fratelli, di uno studente straniero. Di Amnesty
International, che ha condotta una delle sue più efficaci disseminazioni del proprio
principio costitutivo, l'adozione d'un prigioniero di coscienza. Di quell'anziano
venuto in bici da Padova a Roma per sollecitarvi i centri del potere.
Ancora per quei parlamentari che hanno trovato un punto di convergenza- come si
dice oggi- nel raccomandare al Governo di concedergli, nonché la cittadinanza
italiana, e per quei 200 sindaci italiani pronti a dare la cittadinanza comunale
onoraria a Patrik.
Per quei diplomatici che, muovendosi soprattutto fuori dai riflettori, hanno lavorato
per lui, ed hanno avuto il coraggio di stargli fisicamente vicini nei momenti di
decisioni giudiziarie.
Pure per quei giornalisti anche televisivi che hanno concesso a questo argomento,
ingombrante e scivoloso nel quadro dei buoni rapporti Italia-Egitto sul piano della
vendita di fregate e dell'acquisto di prodotti petroliferi, un certo rilievo.
E gratitudine anche per il giudice firmatario della scarcerazione, insieme a quelle
persone sia del potere giudiziario che esecutivo che hanno permesso questo atto.
Abnorme, intollerabile, scandaloso, sia formalmente che sostanzialmente, è stato il
comportamento dei poteri sopraddetti contro Patrik Zaki.Ma proprio perciò questo
atto d'umanità ha rotto inequivocabilmente quell'atmosfera, ed ha richiesto a chi ha
osato compierlo uno sforzo che non deve esser ignorato. In altre parole la
scarcerazione sottintende un giudizio sulla non pericolosità sociale, sulla non
probabilità per lui di reiterazione del reato, di manomissione di prove, di fuga. E
questo è molto, se non moltissimo; non deve esser ignorato nell'esultanza. Immagino
che in Egitto tutti i coinvolti nell'attacco a lui stiano interessandosi a fondo alle
reazioni del nostro mondo, soprattutto per calibrare la prossima mossa, il giudizio
nel processo di febbraio.
Se questo sforzo di de-demonizzazione di Patrik sarà apprezzato, se qualcuno di noi
dirà “c'è un giudice al Cairo”, se quell'atto servirà a rianimare la fiducia mondiale
nella sopravvivenza d'una legalità, affondante radici millenarie nei codici e trattati
del diritto islamico, e che era stata brutalmente calpestata in questo caso, come,
peggio, in quello di Giulio Regeni, inevitabilmente sia i giudici di merito che le
sopravvivenze sane del potere esecutivo saranno spinti, scagionando Patrik in sede
processuale, a dimostrare più completamente quello che potrebbe esser definito
“ritorno alla legalità formale e sostanziale” .
E qui s'inserisce il tema della cittadinanza italiana.
Forse nessuno più di me è entusiasta di questa iniziativa, ho firmato per sostenerla.
Però cerco di guardarla con gli occhi delle istituzioni egiziane.
Intanto abbiamo avuto un saggio di quale protezione sia stata, in Egitto, la
cittadinanza italiana per Giulio Regeni, cioè meno di zero. Lo sarebbe di più per
Patrik? Immagino che i “giudici pentiti”, che volessero scagionarlo, saputo che lui si
“scuderebbe” da loro sotto una cittadinanza straniera, potrebbero, quasi
naturalmente, sullo slancio promosso dal senso di “nemico della patria” che essi
ravviserebbero nel “Patrik cittadino italiano”, pensare in questo modo:” Bello, ti
abbiamo scarcerato, e tu ti vergogni d'essere egiziano? Allora ti condanniamo,
formalmente perché hai difeso i cristiani in Egitto, ma realmente perchè hai
rinnegato la tua patria “.
Forse l'incubo maggiore gravante sulla libertà ritrovata di questo ragazzo.
Pier Luigi Starace 8/12/'21
LUCE VERDE
Seconda settimana di novembre, foresta di Bialoweza. Lei non rispetta confini, si
estende quanto le pare in Bielorussia e Polonia. Anche storicamente quel confine è
poco rispettabile, perché queste due etnie avevano in comune l'aver aderito alla
confessione cattolica in un mondo a maggioranza ortodossa, poi addirittura l'essersi
fuse in un solo stato, e finalmente-cosa atroce- aver avuto il destino, proprio 80 anni
or sono, d'esser state quelle contro le quali l'aggressione hitleriana aveva perpetrate
le più radicali distruzioni, le più mostruose stragi, anche impiantandovi i peggiori
lager.
Ora i figli dei cattolici, della “grande Polonia”, delle vittime del nazismo, si
fronteggiano come i più inveterati nemici, con mascherature integrali, stratificazioni
di plastica dalla cima dei capelli a sotto i piedi. Ma, per il momento, i nemici,
comuni nemici, sono altri. Sono i singoli di quella inerme mandra di profughi che
ancora separa le due barriere armate.
Per ora sono loro il target, di queste truppe scelte, pronte a sparare contro gli
uomini, a spintonare con gli scudi donne incinte, ad aizzare cani-lupo contro
bambini. Sono pronti a farlo gli uomini di Lukascenko, se la mandra, per
disperazione, s'azzarda ad arretrare in territorio bielorusso, per tornare indietro. Sono
pronti a farlo gli uomini di Morawiecki, se la mandra, per disperazione, s'azzarda a
buttarsi contro i rotoli di filo spinato del confine, per entrare in territorio polacco.
Ed entrambi gli schieramenti, forse inconsciamente, come in una “location” ben
scelta per un film storico, effettuano un revival di quanto accaduto ottantanni prima
in quelle foreste. Ma le etnie sono cambiate: gli armati non sono più i germanici
delle SS e Gestapo, sono i figli dei massacrati un giorno da SS e Gestapo. Che non
se la prendono con dei tedeschi, e neppure con degli aggressori, ma con dei
profughi.
In quella striscia di terra di nessuno i due eserciti s'armonizzano a realizzare un
lager di sterminio, stanti gli ordini dall'alto per entrambi: vietato l'accesso a
chiunque, perfino alle organizzazioni umanitarie, ai giornalisti; vietato dare da
mangiare ai profughi, ospitarli, curarli. Criminalizzazione preventiva d'ogni atto
semplicemente di civiltà. Sospensione di tutti i diritti dell'uomo, compreso quello
alla vita. E' questa fotocopia delle disposizioni di Himmler per la Scioà che, per chi
la prova sulla propria pelle, ha un nome: Europa.
“La Polonia non è morta” inizia l'inno nazionale, composto nel 1797, quando quella
nazione era stata aggredita da Prussia, Imperi asburgico e russo, e spartita fra essi.
E' così che voglio iniziare il controcanto di quanto esposto sopra.
Il sindaco d'un villaggio della foresta, Kuznika, non s'è imboscato, ma s'è messo a
girare tra le migliaia di “gorilla” plastificati senza paura di nessuno, per mantenere la
civiltà contro la militarizzazione integrale: così che nessuno potesse dire che il
territorio a lui affidato fosse “terra di nessuno”.
In lui, la Polonia non è morta.
Punte avanzate dell'associazionismo polacco, semplici abitanti della foresta,
intellettuali impegnati, come una professoressa universitaria, e chissà quali altri non
emersi sotto i riflettori, hanno violato coscientemente la legalizzazione da stato di
guerra di crimini contro l'umanità come i divieti suddetti, dovuti all'ubriacatura
sovranista dei loro vertici politici, ed hanno trasportato e donato cibo, acqua, sacchi
a pelo, tende.
Mentre nelle altissime sfere nazionali e mondiali i ritenuti grandi scimmiottavano
quelli d'ottantanni prima coli loro giochini di violazioni di spazi aerei, accuse
reciproche, miserabili calcoli di popolarità, illudendosi di “fare grande politica”,
queste persone hanno preso in pugno la situazione in cui erano state cacciate, ed
hanno, pronte a pagare di persona, cercato d'imprimere una direzione a quella
situazione, essere soggetti e non oggetti di storia.
In tutti loro la Polonia non è morta.
L'abitante d'una casetta della foresta, come quella di Cappuccetto rosso, ha dotato
una lampadina d'un contenitore verde trasparente, e l'ha accesa, di notte,
semi aprendo la finestra in modo che ne filtrasse la luce.
Rischiava, come ottantanni prima uno che avesse aperto la casa ad un ebreo
fuggiasco.
La luce della speranza è stata vista da una famigliola di turchi, ai quali ha spalancato
la sua porta, e che ha ospitati da salvare, per cinque giorni. Turchi, i nemici storici
dei cattolicissimi polacchi, ma ora solo fratelli, da salvare, col coraggio dei veri
eroi.
In lui, non so perché direi soprattutto, la Polonia non è morta.
Pier Luigi Starace 14/11/'21
Esempi
di credibilità
Il
primo è stato dato da Giorgia Meloni, quando ha tirato fuori l'espressione,
coniata da un giornalista inglese, e sulla quale si tutti sono buttati da
destra, centro e sinistra da più di mezzo secolo, “strategia della tensione”.
Personalmente
non l'ho mai usata, perchè mi suona come un modo per incartare
diplomaticamente
il crimine politico più odioso: l'organizzazione e l'esecuzione,in modo che
nessuno possa trovare chi l'abbia effettuata,
da parte d'un potere che vuole eliminare qualcosa che sente come
pericoloso, d'un omicidio o d'una strage,
per poi attribuirla a quelli da eliminare, e passare automaticamente a
liquidarli, o fisicamente, come fece Hitler con la notte dei lunghi coltelli
contro le Sturm Abteilungen, e quella
dei cristalli contro gli ebrei, o incarcerandoli, come accadde quando i servizi
segreti deviati da neofascisti misero le bombe alla banca dell'agricoltura, e
se la presero con gli anarchici.
Se
“strategia della tensione”significa altro, qualcuno me lo dimostri, e ne
potremo discutere.
In
attesa di tale correzione, proseguo.
Mi
domando, e domando alla Meloni ed a tutti quelli che le hanno fatta passare
quell'espressione, in quale modo tale strategia abbia anche un solo punto di
contatto con un crimine, quello della devastazione della sede CGIL di Roma, la
cui esecuzione è stata quasi ufficialmente annunciata ad una folla da
Castellino, ed i cui esecutori sono stati ripresi da tutte le posizioni, e
mostrati incessantemente da tutti i canali tv. Mancano al crimine in oggetto i
due elementi necessario per poterlo
inscrivere nella tipologia avanzata dalla Meloni: il segreto assoluto prima
dell'esecuzione da parte di chi lo preparava, l' anonimità e l'irreperibilità dei suoi perpetratori.
E'
possibile fondare un 'ipotesi su un
vuoto più spinto? Sì, quando la stessa Meloni ha accozzato a quel crimine la
ministra dell'interno Lamorgese.
Costei,
con una superiore serenità, non ha, ch'io sappia, denunciata la Meloni per
falso e calunnia.E con ragione: infatti
anche il più spregiudicato dei PM non
oserebbe squalificarsi fino al punto d'imbastire un'ipotesi accusatoria
contemplante la ministra come mandante dell'assalto castelliniano.
Ma,
a proposito di assalti, da settimane la Lamorgese era stata spintonata da
Meloni e Salvini per la sua indegnità come ministra, ma senza il coraggio di
proclamare fuori dai denti che il di lei crimine era, per loro, aver salvato la vita a più di 30.000 profughi.
Il
secondo esempio viene proprio da Salvini.
Jair
Bolzonaro è il più competitivo con Trump in un'omissione di soccorso produttiva
d'un numero di vittime da Covid da
vergognosi primato, è inoltre
tollerante e largamente complice dell'incendio della selva amazzonica,
habitat naturale degli indios, fonda
l'ordine pubblico su squadre di polizia che sparano ad altezza d'uomo. Crimini
che possono, e lo sono già in Brasile, esser catalogati come contro l'umanità,
e/o strage, genocidio. Autorità religiose e civili nostre non lo hanno
affiancato pubblicamente quando è
venuto in Italia. L'unico che gli è stato a fianco in una cerimonia ufficiale è
stato Salvini, cogliendo l'occasione per una dichiarazione di antifascismo
molto “credibile”, e piazzandosi, a pancia in fuori, accanto a quello che, venuto a rivendicare radici
italiane, sta trattando il proprio
popolo ed il proprio suolo come il più efferato nemico invasore.
Il
terzo esempio viene ancora da lui e Meloni, stavolta in coppia, più Taiani.
Essi
si sono armonizzati nel proporre come candidato alla presidenza della
repubblica, come cittadino e statista d'esempio anche ai nostri figli e nipoti,
come rappresentativo del genio
italico,un plutocrate,
pseudocrate, taumatocrate, bullocrate, cleptocrate, pornocrate,
egocrate.
Il
quarto esempio viene dal sindaco di Anzio Candido De Angelis.
Nel 1924, l'anno delle elezioni violentate dai
fascisti e dell'assassinio di Matteotti,
la protervia del regime arrivò al punto di lanciare ai podestà l'idea di
conferire la cittadinanza onoraria a Mussolini in ogni città. Il podestà
d'Anzio aveva aderito.
Il
cittadino onorario di Anzio fu il primissimo a massimo responsabile delle
distruzioni e stragi da bombardamenti di quella città. Nell'atto di
dichiarare guerra agli USA, nel dicembre
1941, non credo che avesse pensato che la più forte potenza mondiale avrebbe
avuto paura di lui, e non avrebbe reagito con le sue forze cento volte maggiori
delle nostre. Le bombe yankee furono la
reazione necessaria a quella dichiarazione di guerra.Le decisioni dei generali
degli States di distruggere determinati bersagli vennero dopo la decisione di
Mussolini di mettersi, cioè di metterci,
contro di loro.
Candido
De Angelis ha detto che nessun sindaco, anche comunista, aveva ami proposto la
cassazione di quella vergognosa iscrizione del maestro, poi complice, di
Hitler, fra gli anziati benemeriti. Bene. Ma siccome ha anche dichiarato che
sta facendo i conti col passato; se non ora, quando?
Gli
suggerisco modestamente di seguire l'esempio del sindaco d'una città vicina alla sua, Latina, Damiano
Coletta. Egli ha proposto di
sostituire l'intitolazione del parco più
grande di Latina, che era alla figura scialba ed opaca di Arnaldo Mussolini,
con una a Falcone e Borsellino. La proposta è stata approvata dal consiglio
comunale. Non è caduto il mondo.
Il
quinto esempio lo auspico solamente, e
si tratta ancora di credibilità, senza doppio senso stavolta. Si tratta
ancora di sindaci, quelli di Velletri e Lariano, e di quello che avessero fatto o pensano di fare, per giungere, in una
faccenda in cui c'entra anche la
regione, che vede famiglie con membri disabili coatte a pagare onerosi tickets
per continuare a fruire d'assistenza domiciliare, ad una soluzione che dimostri
la loro credibilità.
Pier
Luigi Starace 5/11/'21
NON RABBIA, MA ESECRAZIONE
PIER LUIGI STARACE
Alle radici elleniche della nostra civiltà, nella religione olimpica, era venerato Zeus Xenios, protettore dell'ospitalità. Chi violava questa norma religiosa e civile insieme era esecrato da tutti quelli che avevano una fede e che erano cittadini.
Eschilo scrisse una tragedia, “Le Danaidi”, per esaltare la pietà verso perseguitati che imploravano accoglienza.
Secoli dopo di lui un rabbi ebreo predicò che ognuno di noi subirà un giudizio finale, quindi inappellabile, esclusivamente sul tema dell'ospitalità. ”Ero affamato, assetato, nudo, senza casa... e tu mi hai accolto/ o non accolto” e tutti sappiamo con quali diverse conseguenze.
In questi ultimi anni un giovane calabrese, di Mèlito Porto Salvo, ha dato un esempio d'ospitalità trascendente razze, provenienze, religioni. Per lui l'unica condizione perchè qualcuno fosse accolto, nella sua Riace di cui era sindaco, era trovarsi nelle condizioni descritte dal rabbi di cui sopra. Le centinaia di persone che riusciva ad armonizzare con straordinaria capacità organizzativa e carisma umano divennero migliaia quando da un lato generosi sostenitori lo e poi le stesse istituzioni ufficiali, dall'Unione europea alle prefetture al ministero degli interni finanziarono la sua iniziativa, che fu apprezzata ufficialmente in tutto il mondo.
Il 29/9 il tribunale di Locri ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni e due mesi di carcere.
L'inchiesta che aveva avviato la sua persecuzione era stata denominata con un vocabolo greco, “xenia”- che vuol dire appunto ospitalità.
L' opinione pubblica è stata largamente informata, soprattutto con immagini indiscutibili, dell'azione di Mimmo. Inevitabilmente la prima, e per molti anche ultima, reazione, sarà stata: l'ospitalità è un crimine peggiore dell'omicidio e dell'associazione mafiosa. Lasciamo perdere!
Non molti avranno la curiosità di approfondire IN CHE COSA si sostanziasse la criminalità latente nel condannato. Io l'ho fatto, leggendo la sentenza: aver concessa una carta d'identità ad una neonata, cosa alla quale anche i cani hanno diritto, con l'anagrafe canina, in modo che questa innocente, nata sul nostro suolo, non fosse trattata peggio d'una cucciola di randagia. Una “criminalità” già praticata da due figure di martiri al cui sangue dobbiamo la nascita della nostra repubblica, Don Pietro Pappagallo e Don Giuseppe Morosini: fare documenti falsi, allora come oggi al solo scopo di salvare vite umane perseguitate, ieri dalle SS e dai repubblichini, oggi dallo scarico di responsabilità di istituzioni. Mimmo Lucano, con questi “crimini”, proseguiva semplicemente la sua opera di salvezza con altri mezzi.
La sentenza non imputa a Mimmo Lucano neppur un euro di appropriazione
indebita, eppure lo condanna per “associazione a delinquere”. Mimmo ha detto che gli associati con lui a delinquere dovrebbero allora essere la prefettura di Locri ed il ministero degli interni, che gli avevano scaricato centinaia di casi d'accoglienza da risolvere. Credo che nella storia NON sia mai esistita un'associazione per delinquere- a parte quelle di matrice politica- non a scopo di lucro. Allora: che associazione a delinquere è? E' un sacco vuoto, ma che permette a chi glielo ha caricato sulle spalle, di triplicare gli anni di carcere accumulati per salvare persone con un timbro illegale, e, insieme alla non concessione delle attenuanti generiche, spiega l'entità enorme della pena irrogata, ed appesantita da atroci beffe come la condanna alla compagna etiope di Mimmo, e la grottesca pretesa di 800000 euro di restituzione di fondi gestiti, come se non avessimo tutti visto la quantità di persone vestite, nutrite, alloggiate, stipendiate, e le strutture realizzate con quanto ricevuto, senza un solo conticino bancario a lui riconducibile.
Vediamo ora chi deve aver o ha pubblicamente esultato per questa sentenza.
Quegli 'ndranghetisti che hanno lasciato i loro proiettili infissi nel portone d'una sede direttiva di Riace dell'attività di Mimmo Lucano.
Quei “vecchi credenti”, cattolici nemici di papa Francesco, e d'ogni faccia nuova incontrata dentro dei “sacri confini” coincidenti con quelli d'una parrocchia.
Quei militanti di “Forza Nuova” che avevano violato con bandiere nere nazifasciste il perimetro di Riace in manifestazione mirata contro Mimmo Lucano.
Quei partiti- cui non concedo l'onore della citazione-per i quali Mimmo Lucano è il massimo cattivo esempio per i giovani italiani.
Non azzardo neppur iniziare la lista di chi ha vissuto, come me, questa sentenza come uno scandalo, a cominciare da magistrati, perché sarebbe troppo lunga, anche perché internazionale.
Ho detto magistrati, e ricordo che, come altri nella storia giudiziaria di Mimmo Lucano, perfino quelli della cassazione s'erano espressi, demolendo pezzo per pezzo la montatura contro il sindaco dell'accoglienza. Ricordo anche il sindaco di Napoli De Magistris, vecchio leone della lotta alla 'ndrangheta, che ci ha offerto l'immagine esaltante del suo coraggio civile d'abbracciare pubblicamente, a Riace, il condannato ad una pena infamante.
Per finire, il punto che sento più esecrando di questa sentenza è uno.
Che l'incommensurabile utilità sociale dell'azione di Mimmo Lucano sia stata non dico ignorata, o calpestata, o sottovalutata, ma semplicemente azzerata da questa sentenza, e che, in forza della condanna, a Mimmo Lucano sia stata, in automatico, attribuita la pericolosità sociale d'un omicida. Che un benefattore sia stato trasformato in malfattore. Che un esempio di vita che ha fatto splendere la nostra patria nel mondo sia stato sfigurato in quello d'un malvivente da cui la società deve guardarsi: a cui deve guardare con esecrazione.
Code e lotta di classe
di PIER LUIGI STARACE
Banche, uffici anagrafici, ASL, inps, poste, e molto altro. Quando sto in queste code il mio orologio mi dice che il trend all'allungamento – in metri nello spazio, in minuti ed ore nel tempo- è in aumento, anche se nello scorso anno i “numeri” raggiunti dimostravano una crescita che, fosse stata del PIL, avrebbe creato la fama di grande statista al presidente del consiglio sotto il quale fosse avvenuta.
Mentre attendo il mio turno, non computo approssimativamente solo i minuti o le ore che mancano, ma faccio altri calcoli. “Eravamo 40 persone all'apertura, con uno sportello in servizio. Calcolando 10' a operazione ci vogliono più di sei ore. Se ne avessero aperto un altro ci vorrebbero tre ore. Se un terzo, un'ora e mezza. Quegli sportelli ci sono, ma fuori servizio.”
Gli impiegati anche dovrebbero esserci,ma la risposta è normalmente che sono a casa perchè malati o dove gli pare perchè in ferie. Reperirne qualcuno per affiancare quello in sevizio appare qualcosa di più complicato che arrestare un boss.
“Il tempo è danaro”, mi rintocca nella mente davanti allo scempio di esso tempo che sono coatto a consumare. M'immedesimo in un artigiano, un tassista, un idraulico che, in quelle ore trascorse a far niente avrebbero potuto produrre un servizio retribuito, per portare avanti la famiglia.
Poi m'immedesimo in un manager di qualunque dei settori elencati in apertura, e cerco di capire se, valendo anche per lui “il tempo è danaro”, anche lui si è fatto dei calcoli. Mi sento un po' indiscreto, ma ci provo. “Devo comprimere il costo del lavoro, quindi prima tagliare al massimo il personale, poi utilizzare al massimo il personale residuato. Le code sono un effetto collaterale che può non piacere a chi vi si trova, ma che, obiettivamente, sono innovazione, efficientamento, modernizzazione, dall'unico punto di vista che professionalmente devo assumere: far più profitti, da ripartire all'interno dell'azienda, pubblica o privata non fa differenza” .
Tutto ciò premesso, eccomi alla lotta di classe.
Normalmente per essa s'intende quella della classe oppressa contro gli oppressori, che s'esprime con scioperi, manifestazioni, sabotaggi. Ma esiste, ed è anche nata per prima, la lotta della classe padronale contro i lavoratori. Gli esempi più elementari sono le bande di picchiatori o addirittura di killers usate dai grandi capitalisti USA contro operai e sindacalisti, le serrate delle aziende, le leggi dettate da loro stessi industriali ai loro lobbisti seduti nei parlamenti.
Ma che c'entrano le code con questo? Vedo in esse l'effetto naturale e necessario d'una politica mirata, oramai da decenni, allo scopo che affascinava i primissimi schiavisti della rivoluzione industriale inglese, quelli che spremevano gli uomini in modo che a quarant'anni erano già al cimitero: creare disoccupazione. Perchè la disoccupazione è la gran madre dell'abbassamento dei salari, illimitato, generante automaticamente l'aumento illimitato del profitto dell'industriale, è la base di tutto per l'imprenditore.
Ai fini dell'aumento della disoccupazione, questa situazione di far lavorare sempre di più un numero sempre decrescente di quelli che hanno un posto, la mantiene alta.
Limitandoci ai comparti che ho elencato in apertura, quante centinaia di migliaia di posti di lavoro si potrebbero creare assumendo impiegati “tagliacode”, lanciando sulla prima linea dello sportello a contatto col pubblico, in banca, in posta, all'anagrafe, “truppe” ausiliarie! Liberando il tempo dei poveri disgraziati che di code magari ne devono fare più d'una al giorno! Permettendo una “ripresa” realmente fondata sul lavoro!
Un ultimo dettaglio: l'aspetto classista delle code s'evince dal fatto che la larghissima maggioranza dei coatti alla requisizione forzata del proprio tempo è composta di persone delle classi inferiori. I ricchi, che si sentono umiliati ed offesi se dovessero incolonnarsi, per fare un'operazione bancaria o ritirare un certificato come bisognosi davanti ad una mensa charitas, hanno i loro agganci e le loro scorciatoie per evitare una simile umiliazione.
“SE
NON PUOI PAGARE E' UN PROBLEMA TUO”.
Il
30 /11/20 i consiglieri comunali di Velletri, i quali, in legittima veste di
legislatori, avevano stilato il “Regolamento distrettuale per l'assistenza
domiciliare sociale, integrata ed educativa minori”, lo approvavano con 20 voti
su 25.
A
primavera gli interessati iniziavan ad esserne informati, ed attualmente esso è
stato avviato alla fase attuativa.
Un
punto, almeno, ha colpito, e nella tasca,
il centinaio di fruitori del servizio:
l'introduzione
d'un “ticket” ( in italiano, e nel caso, una “sovrattassa sulla salute”): che
una prestazione prima a costo zero ora è stata scaricata sul bisognoso e sulla
sua famiglia, già gravata da spese di
cura e d'assistenza, con un'impennata da zero a 20 euro giornalieri, 700
mensili e via.
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persone non possono onorare questo comma, e sono state costrette, certamente
con parole molto diverse da quelle della mia titolazione, a rinunciare al
beneficio, con le conseguenze sulla salute e la vita che anche un bambino
capisce.
Non
voglio adesso annoiare i lettori cui sono simpatico con eccessi di legittima
difesa delle persone colpite dal provvedimento, e nello stesso tempo porgere
materiale denigratorio a quelli cui sono antipatico; in altre parole voglio
dire il minimo indispensabile.
Sacrosantamente
molti hanno auspicato che il covid spingesse verso una nuova solidarietà verso
soprattutto i più bisognosi ( detesto la parola “fragili”, perchè tanti presunti
tali sono enormemente più forti dentro di tanti altri), ed un'eccellente
occasione a questo fine sarebbe stata quella di sopprimere il vergognoso
“ticket”. Non voglio definire, allora, per rispetto dei consiglieri, l'atto
istituzionale di crearne un altro.
Un
mese fa Enrico Letta ha forse involontariamente sollevato ondate d'opinione
pubblica in difesa dell'intoccabilità dei patrimoni più cospicui, come se
incidere in essi potesse inferire un
danno immeritato ai loro possessori. Non mi risulta, e sarei esultante di
sentirlo, che qualcuno dei votanti a favore del regolamento abbia difesa
l'intoccabilità finanziaria di famiglie
già colpite dalle peggiori
disgrazie.
Radici
cristiane, si dice da vent'anni. Mi chiedo come mai esse non siano riemerse imperativamente in consiglieri
di tale matrice, denudando la sostanza squisitamente anticristiana d'un
provvedimento che, anziché dare, chiede al bisognoso. E tiro dritto su quelli
con radici di sinistra, o nè di destra né di sinistra, o addirittura della
“repubblica sociale”, tanto avete già capito cosa direi.
Parlando
politichese – me lo permetto qualche volta- osservo che il punto incriminato
del regolamento è perfettamente coerente al trend che dal 1989 ad oggi è stato
portato avanti con un'armonia prestabilita
nel mondo da governi di destra, di sinistra e di centro: prima la demolizione, oggi l'asportazione sempre
più scrupolosa degli ultimi brandelli di stato sociale.
Ovviamente mi unisco a piena voce a chi invoca
la sospensione dell'applicazione di quel punto del nuovo regolamento, e
concludo con un'amarissima constatazione. In un referendum popolare, quel punto
avrebbe compattato i votanti in un no fremente e responsabile.
Pier
Luigi Starace 26/7/'21
TRITTICO.
3. Perché il silenzio?
Sono
nato nel '38, da genitori cattolici impegnati, non solo nei quadri ufficiali
dell'Azione Cattolica, ma in movimenti “dal basso”, ho conosciuto decine di
sacerdoti secolari e regolari, qualche vescovo,
ho letto decine di fogli, riviste, periodici della stampa cattolica, parlato con dirigenti
di vari rami. Ma mai, neppure una sola volta,in questa ottantina d'anni, ho
letto o sentito pronunciare, in quell'ambiente,
i nomi di Don Pietro Pappagallo e di Don GiuseppeMorosini.
Vediamo
CHI e COME ha ricordato Don Pietro.
Nel '45 è Renzo Rossellini a costruire, con
materiale tratto dalla di lui biografia, la figura del sacerdote di “Roma città
aperta”.
Gli viene intitolata la sezione dei partigiani
dell'Esquilino- Monti-Celio.
Dopo
oltre mezzo secolo, nel 1997 la giunta comunale Rutelli lo ricorda con una
lapide a fianco della porta del suo domicilio di V. Urbana. Nel
1998, il presidente della repubblica Scalfaro gli concede una medaglia
d'oro al merito civile. Nel 1999 la Fondazione Carnegie gli dedica una medaglia
d'oro, riconoscendolo “eroe”.
Nel
2000 Giovanni Paolo II lo include fra i 12692 “martiri della chiesa del XX
secolo”.Nel 2006 la RAI ricostruisce il
suo sacrificio con lo sceneggiato “La buona battaglia”. Nel 2012 gli è intestata una “pietra
d'inciampo” come salvatore di ebrei, e, per lo stesso motivo, nel 2018, Israele
lo proclama “Giusto fra le nazioni”.
Passo
a Don Giuseppe.
Il
15/2/'45 gli è concessa una medaglia d'oro al valor militare.
Nel
1954 il corpo viene traslato da Roma a Ferentino,dove viene seppellito nella
cappella-sacrario di Sant'Ippolito, ufficialmente riservata alle vittime
militari.
Sempre
nel '45 ancora Rossellini introduce in “Roma città aperta” l'esecuzione di Don
Giuseppe.
Nel
1997 Poste Italiane gli dedica un francobollo.
A
Ferentino il comune gli dedica un busto, qualche lapide, un ITIS, ed anche il
circolo didattico.
Scorso
il primo elenco, e notiamo che fra i “chi” istituzionali della chiesa cattolica
apostolica romana che hanno ricordato il sacrificio di Don Pietro, attribuendogli ufficialmente
l'appellativo di “martire”ce n'è uno solo, Giovanni Paolo II. Trovo da un lato
commovente che il resistente polacco alla Gestapo abbia, nello slancio di
fraternità con un compagno di lotta, lacerato dopo 57 anni il sudario di
silenzio vaticano steso su quella figura; ma dall'altro trovo amaro e quasi
derisorio che, senza una di quelle preparazioni lunghe e capillari mirate alla ricostruzione ed
all'apologia della personalità del canonizzato, nelle quali la chiesa è
maestra, come per le santificazioni di
Pio X o di Maria Goretti, sia stato come gettato in una fossa comune, con gli altri
12692.
Scorso
il secondo elenco, non trovo nessun rappresentante della gerarchia della chiesa
cattolica apostolica romana che abbia riconosciuto ed additato
ufficialmente il sacrificio di Don
Giuseppe. Non ho potuto non mettere in relazione questo silenzio col fatto che
nell'enciclopedia cattolica, edizione uscita nei primi anni cinquanta, sotto
papa Pacelli, il nome di Don Giuseppe non venisse neanche riportato.
Ufficialmente
Don Giuseppe è un “militare decorato” ,“una vittima militare”.
Onestamente
le istituzioni militari specificano che Don Giuseppe era anche sacerdote. Trovo
irresistibilmente scandaloso che al pietoso e nobile riconoscimento del suo
sacrificio da parte di tali istituzioni, al loro orgoglio di rivendicarlo come
uno di esse, si contrapponga non solo il
silenzio, ma la paralisi da parte di quelle religiose. Quasi che esse avessero
da vergognarsi che Don Giuseppe fosse un
loro prodotto. Che le migliaia di presbiteri romani dell'arco di settant'anni
non abbiano impetrato da chi di dovere che fosse innalzato, come un faro, uno
di loro che aveva professato letteralmente il loro ideale : “sacerdos alter
Christus” con tutto il suo sangue.
“La
loro tomba è un altare” era scritto sulla lapide dei 300 eroi delle Termopili.
Lo
stesso per i morti per la fede sepolti nelle catacombe, e venerati come martiri
dall'attimo del loro sacrificio.
Non
così per i nostri due martiri, nei luoghi di sepoltura a Terlizzi e Ferentino.
Se,
come pare per Don Pietro, su iniziativa di corregionali, si avvierà un processo
di canonizzazione, pare anche che da dieci anni, anche in quella sede, la “guideline” anonima e non scritta, entrata
in vigore fin dall'attimo dello spirare di lui, continui ad essere il silenzio
nell'immobilità.
Ma
questo silenzio non sfiora neppure l'altezza di due figure che, nel momento
in
cui le istituzioni politiche si bipartivano tra i consegnatori del potere sul
nostro popolo alla belva nazista ed i fuggiaschi verso Bari, e quello religioso
si esibiva in contorsionismi diplomatici, Don Pietro e Don Giuseppe si costituivano in esempi ai cittadini
italiani contro l'aggressione militare nazista, ed in esempio a tutti i
cristiani del mondo, eminentemente al clero cattolico d'ogni ordine e grado,
contro la scristianizzazione integrale delle coscienze consumata al grido di “Gott
mit uns”.
E
questo silenzio non sfiora la forza dell'ammirazione che milioni di anime hanno
provata per loro, e che spero provino, oggi, anche grazie a questa mia
commemorazione-
non ufficiale, ma forse è meglio così.
Pier
Luigi Starace
2. Don Giuseppe Morosini
Nato
a Ferentino nel 1913, ultimo figlio di
numerosa famiglia profondamente cattolica, adolescente entra nella
Congregazione della Missione, un ramo delle opere di san Vincenzo de' Paoli che
lo aveva particolarmente attratto.
Parallelamente
agli studi teologici porta avanti quelli musicali, rivelando anche talento di
compositore. E' ordinato sacerdote nel 1937.
Quando
Mussolini, nel '41, idea l'aggressione alla Grecia, Don Giuseppe, non per altro
che per lo slancio di condividere il rischio dei ragazzi spinti al fronte, si
offre volontario come cappellano
militare, ed assegnato ad assistere un reparto d'artiglieria bergamasco in
Croazia.
Nel
'43, dopo il bombardamento alleato del quartiere San Lorenzo, viene richiamato
a Roma, per assistere, nella scuola “Pistelli”, i ragazzi che erano rimasti
senza tetto.
Dopo
l'8 settembre e la deportazione degli ebrei del ghetto di Roma, Don Giuseppe
inizia una rischiosissima attività, entrando nel Fronte Militare Clandestino,
organizzato da Giuseppe Cordero di
Montezemolo, che coordina l'esercito italiano in armi contro i nazifascisti con
i movimenti partigiani. Grazie al pentimento, senza virgolette, d'un ufficiale
austriaco della Wehrmacht, incontrato in un ospedale, Don Giuseppe riesce ad
ottenere una mappatura dello schieramento tedesco a Cassino.Come Don Pietro
Pappagallo accoglie( nel collegio Leoniano) chiunque sia ricercato dalla
Gestapo, e gli procura documenti falsi. Il Giuda che lo consegna a Kappler è un
certo Dante Bruga, infiltrato tra i
partigiani di Monte Mario, che lo vende per
una somma enorme per l'epoca e le circostanze, 70.000 lire.
Il
4/1/'44 viene arrestato, e tradotto nella cella 382 di Regina Coeli. Da subito gli viene impedito di celebrare la
messa, ma non di recitare ad alta voce
il rosario, che riecheggia nel corridoio. Conforta gli ultimi giorni d'un un suo compagno di cella anch'egli condannato
a morte, che doveva avere un terzo figlio, componedo parole e musica d' una
ninna nanna.
Sotto
tortura non solo non rivela nulla, ma s'addossa anche imputazioni di altri, per
salvarli, come l'amico Bucchi, arrestato con lui. Queste falsità lucidamente
premeditate salveranno la vita all'amico, ed a lui costeranno la condanna a
morte.
Sandro
Pertini ricorda che lo incontrò mentre usciva da un interrogatorio. Mentre il
giovane socialista fissava il volto tumefatto ed illividito del sacerdote,
s'accorse
che lo sforzo di sorridergli gli aveva fatto sanguinare le labbra.
Risulta
che il papa Pio XII avesse invocato direttamente da Hitler che la sentenza non
fosse eseguita, incassandone un isterico rifiuto.
La
mattina del 3 aprile '44 Monsignor Traglia, vicario di Roma, varca la soglia di
“Regina Coeli” per assistere li “suo” sacerdote. “Ci vuole più coraggio per
vivere che per morire”gli dice Don Giuseppe, citando volontariamente o
meno, Majakovskij. Poi il prelato lo
autorizza a celebrare la sua ultima messa.
Diversamente
che alle Ardeatine, dove Kappler aveva tenuto morbosamente che i fucilatori fossero solo tedeschi, quella
mattina del 3 aprile '44, al forte Bravetta, il plotone d'esecuzione era
formato da italiani. Erano soldati della
PAI, Polizia Africa Orientale, smobilitati da quel fronte dopo la perdita
dell'ultimo brandello d'impero pochi mesi prima.
Traglia
ottiene che Don Giuseppe non venga ammanettato, e possa benedire quei giovani che per cui aveva finora
vissuto, che era andato a raggiungere nel pericolo.
Poi
il cappellano alza il viso verso l'alto:” Dio, perdona loro, perchè non sanno
quello che fanno”.
Forse,
in quegli ultimi secondi, prova la sensazione incomunicabile di pienezza
suprema immanente alla sua vocazione: quella della totale identificazione tra sé ed il martire del
Golgota.
Dei
dodici fucilatori, 10 rischiano di fare la stessa fine di Don Giuseppe.
Riuscendo a sentirsi italiani, cristiani, o semplicemente uomini prima che
braccio
armato della Germania nazista, sparano
volontariamente fuori bersaglio.
I
due colpi, portati a segno da due ragazzi “disciplinati” non sembrano mortali.
Ed
allora ecco il “fratello maggiore” prudentemente distaccato a supervisionare
l'operazione,
lo SS, altri invece dicono un fascista.
pistola in pugno, che corregge quell'errore d'esecuzione.Aggredisce alle
spalle il ferito, per finirlo con due colpi alla nuca.
E,
per maggior sicurezza, col colpo di grazia.
Pier
Luigi Starace 9/7/'21
1. DON PIETRO PAPPAGALLO
Era
nato nel 1888 a Terlizzi, da una famiglia numerosa. Fin da bambino aveva
lavorato per aiutare il padre, cordaio, nella sua azienda artigianale, poi la
madre lo aveva indirizzato verso il sacerdozio, con sacrifici economici
personali, perchè allora la chiesa esigeva dai genitori dei seminaristi un certo sostegno economico.
L'esperienza
lavorativa lo aveva plasmato anche fisicamente, era un pezzo d'uomo dal viso
aperto e lo sguardo fermo.
Ordinato
sacerdote nel 1915, dirige nella sua Puglia un convitto di studenti, poi
lo
troviamo nel seminario di Catanzaro, e finalmente, nel 1925, a Roma.
E'
allora che nel quartiere Prenestino è in corso, ovviamente sotto controllo
fascista, una sperimentazione di “cooperazione” tra capitale italiano e USA nel
settore tessile, con la CISA VISCOSA. I tre “attori” s'armonizzano così bene
nello sfruttamento degli operai, che Don Pietro scrive a Mons. Baldelli, vicario
di Roma, denunciando dettagliatamente le loro condizioni di lavoro disumane.
Dopo
neanche tre anni, nel '28, Don Pietro è sbattuto fuori da quell'incarico, e
nominato vice parroco di San Giovanni in Laterano.
La
sua casa di Via Urbana è aperta a tutti, specie ai giovani pugliesi immigrati
nella Capitale.
E lo
è molto di più dopo l'8 settembre, quando la fuga del re e di Badoglio offre
Roma alla “conquista” delle SS e della Wehrmacht. Militari sbandati, resistenti
di tutti i partiti, ebrei superstiti alla deportazione in Germania sono accolti
come fratelli in Cristo sotto il suo tetto.
Chiedendone
perdono a Dio, in una commovente dichiarazione scritta, Don Pietro collabora
con la resistenza nello stampare, per questi proscritti dal regime
nazifascista, documenti falsi, ognuno dei quali può salvare una vita.
Sulla
primissima linea di questa controffensiva clandestina all'occupazione
totalitaria del potere in Roma “città aperta” da parte degli sgherri di Kappler
, Don Pietro è affiancato da un giovane conterraneo insegnante di lettere,
militante del partito comunista: Gioachino Gesmundo. Entrambi sanno bene
l'enormità del rischio che corrono, ed anche quanto sia imbarazzante,
formalmente, quella sincrasia. Ma Don Pietro vede nell'ardore di
quell'intellettuale per l'uguaglianza e la fraternità quello stesso che lo
aveva spinto contro gli industriali succhiasangue, e Gesmundo vede in quel
prete non un nemico storico, ma un leale, pulito compagno di lotta.
Neanche
4 mesi dura la loro infaticabile azione salvifica: un certo Gino Crescentini,
spia fascista della Gestaspo, dopo aver fruito dell'accoglienza di Don Pietro,
sceglie la parte di Giuda, ed il 29/1/'44
lo fa arrestare.Anche Gesmundo è catturato. Don Pietro è posto nella
cella n. 13.
Sottoposto
alle torture meccaniche e psicologiche più brutali e raffinate, con
Gesmundo, come lui, non cede. La tenuta della sua anima ben al di
sopra dell'imbestiamento cui i carnefici tentavano d'abbassarla è provata dal
fatto che, in cella, con un 'interpretazione
eroica del “prendete e mangiate, questo è il mio corpo” Don Pietro
condivideva il proprio pane con i detenuti privati di esso come pena
aggiuntiva.
La
via crucis dei due detenuti viene bloccata di netto dalla decisione di
Kappler d'attingere alle celle dei “politici” per consumare la rappresaglia
hitleriana all'attentato di via Rasella.
Il
24/3 entrambi sono incolonnati e spintonati nella pozzolana delle Ardeatine.
Don
Pietro, con la sua poderosa figura, attira l'attenzione di uno dei morituri,
che osa invocare, negli ultimi minuti di vita, la sua benedizione.
Con
uno sforzo sovrumano il condannato
libera la propria destra dai vincoli,
e, come un giorno il condannato
Pietro i crocifissori pronti col martello ed i chiodi, come un
giorno il condannato Paolo il littore con la scure già
sollevata, con voce sovrumanamente
ispirata, benedice, oltre i fratelli di pena, l'ammucchiata sordida dei
fucilatori impazienti o agitati, ossessivamente stimolati, pungolati ed aizzati
da Kappler.
Questa
scena è stata descritta da un militare austriaco uscito dalla Wehrmacht,anche
lui condannato a morte, che era stato
legato a Don Pietro per il polso, era riuscito a liberarsi nella confusione di
condannati ed esecutori, e scappare.
Pier
Luigi Starace 7/7/'21
COTTARELLI, L'INFERNO E LA RIPARTENZA
Carlo Cottarelli porta numeri, non chiacchiere.
Ma per me ha qualcosa in più ancora. Ha avuto quella rara e fuori mercato onestà intellettuale di chiamare “inferno” quella china in cui sempre più cittadini del mondo, da almeno un trentennio, stanno slittando, sempre più in basso economicamente, socialmente e politicamente.
Ed ha parlato di “ritorno” da quell'abisso.
Ovviamente anch'io lo auspico.
Ma l'atmosfera mediatica nella quale sta celebrandosi, e stavolta sì a chiacchiere, la
“ripartenza”, mi sbatte in faccia troppi esempi che smentiscono una volontà di
“ritorno”, e gridano tutto il contrario :”Ricominciate a fare non solo come PRIMA,
ma PEGGIO di prima, così andremo nella giusta direzione, come abbiamo sempre
fatto nell'ultimo trentennio”.
Come fruste di cavetti d'acciaio mirate alle spalle nude dei variamente rovinati
dalla crisi da covid, sibilano con più goduta ferocia le più viete fra le parole che
hanno spinto sempre più in basso nell'imbuto infernale sempre più persone:
CRESCITA (quando gli intelletti sani parlano di decrescita), PIL (sessant'anni dopo
che Bob Kennedy ne aveva rivelata la fallacia come indicatore), EFFICIENZA,
COMPETITIVITA', PRIVATIZZAZIONI.
La prioritarizzazione pronta, cieca, assoluta, come a valore in sé e per sé della
digitalizzione plenaria, universale, totalitaria.
L'orgoglio aziendale ( Trenitalia) della NON -manutenzione. “I signori viaggiatori
sono pregati di assicurarsi per tempo che le porte dello scompartimento NON siano
fuori servizio”.(E senza scuse per il disagio).
Mentre milioni di fratelli d'Italia tirano avanti la famiglia cercando di camminare sul
filo di 500 euro mensili, la portaerei “Cavour” fila dalla west alla east coast del nord
Atlantico portandosi in pancia dozzine di F 35, per un valore monetario
corrispondente forse a più di quello d'una finanziaria.
Senza che le querele laceranti sul peso del nostro debito pubblico, le quali si levano
quando si parla di spendere una cifra dieci o più volte minore per il reddito di
cittadinanza, si siano levate per impedire il pompaggio di questo fiume di danaro
dalle nostre tasche di contribuenti prima, e dal fondo fiscale poi, verso quelle degli
apicali del complesso militare-industriale USA.
Chi ha azzardato d'incidere fiscalmente, sia pur di pochissimo, nel patrimonio dei
super ricchi, è stato trattato dalla massima parte dei parlamentari della repubblica
fondata sul lavoro come uno che, alla tavola dello sceriffo di Nottingham, avesse
proposto un brindisi in onore di Robin Hood.
Nell'atmosfera trionfalistica ben costruita da tutti i media le sofferenze di chi
è restato fuori non si vedono più. Ma resta, anzi si fa più solenne, austero, religioso,
il rispetto per le vere sofferenze che contano per le “persone serie”: quelle bancarie,
e quelle dei mercati.
Sulla proposta d'offrire la cittadinanza italiana a Patrik Zaki, avanzata
dall'avanguardia intellettuale italiana, e reiterata autonomamente da Adriano
Celentano, sia il nostro brillante ministro degli esteri, sia il prestigioso presidente del
consiglio dei ministri, sia il pensoso presidente della repubblica non hanno sgarrato
dalla linea di fermezza “non vedo, non sento, non parlo”.
Mentre pareva che tutti, meno Trump e Bolzonaro, avessero capito che bisogna
evitare le emissioni da combustione, il mondo motoristico tira dritto.
Su una curva cieca del circuito del Mugello in un micidiale assembramento di bolidi,
resta a terra il neanche ventenne elvetico Jason Dupasquier.
L'indifferenza verso la vita, professata da quella di chi vuole ignorare il futuro
del nostro genere continuando a inquinare NON per bisogno assoluto, ma per
“divertimento di massa”, è stata confermata da quella verso la vita spezzata di
Pasquier. Il divertimento deve continuare, hanno deciso, per celebrare un lutto del
genere ci sono modi diversi dalla soppressione della gara- soprattutto meno
dispendiosi.
In definitiva, tutte queste forme di “perseverare diabolico” conducono
necessariamente ad evocare l'inferno.
Senza però perdere la speranza, ogni volta che, in alto o basso, qui o altrove,
spontaneamente o organizzatamente, possiamo vedere esempi diametralmente
opposti a quelli elencati.
Pier Luigi Starace 6/6/'21
LEZIONCINA
STORICA AD UN GIOVANE NEONAZISTA TEDESCO
Caro
ragazzo,
non
ti parlo da nemico, anche se ideologicamente dovrei esserlo, e neanche da
straniero: risalendo la genealogia del mio ramo materno ho trovato più di un
cognome germanico, quindi, quante generazioni fa non so, quel sangue ha
cominciato a fluire nel mio.
Data
di partenza di questa lezioncina : 1870.
Il
re di Prussia Guglielmo I, assistito dal
suo primo ministro Bismarck, dopo aver, nel 1866, massacrato a Sadowa l'esercito austriaco, si monta la testa, si
sente imperatore al posto dello sconfitto, ma non spodestato, Francesco Giuseppe, e, per esserlo veramente,
attacca la Francia di Napoleone III. Gli va bene, perché i francesi sotto quel
dittatore corruttore si erano infiacchiti, e Bismarck, a Parigi, incorona il
proprio re col titolo d'imperatore, cioè Kaiser.
Costui
è abbastanza soddisfatto, si ritira da Parigi, e si accontenta di togliere alla
Francia l'Alsazia e la Lorena.
E'
la nascita dell'imperialismo germanico moderno.
Che
si sfoga in Africa, e mettendo in moto una gigantesca produzione di armi,
specie corazzate.
Dopo
due generazioni, nel 1914, il nuovo Kaiser, Guglielmo II, riparte.
Stavolta
non si accontenterà di una nazione, neanche dell'Europa, lo scopo finale è il
dominio del mondo. Lo appoggiano ancora
Francesco Giuseppe ed il sultano dell'impero ottomano. ”Modernizza “ la guerra
con i sommergibili che attaccano anche navi passeggeri, ed i gas d'ogni genere,
che a volte sono spinti dal vento contro i soldati tedeschi.
Sai
anche tu come è finita, nel novembre 1918: si sbriciolano i due imperi alleati,
tramontano le tre dinastie imperiali, ed alla Germania battuta vengono tolti
territori ed imposte enormi multe per i danni provocati con quell'aggressione.
Terzo
tempo, 1939 : Hitler vuole la rivincita, e mira con ancor più arroganza al
dominio del mondo. Anche se la Germania ha perse le colonie , ed ha come
alleati solo il Giappone, l'Italia, e
qualche stato balcanico. La sua “modernizzazione” include bombardamenti di
civili, massacri d'innocenti per solo scopo terroristico, la costituzione di
corpi come le SS, liberi da ogni regola internazionale di comportamento, e il
resto lo sai meglio di me.
Come
sai che il sogno del III reich finisce con la Germania fatta in quattro pezzi,
ognuno dei quali sotto un altro stato.
Il
punto che m'interessa , adesso, è questo: Hitler aggredisce, dopo la Polonia e
prima dell'URSS, degli stati che linguisticamente, e quindi etnicamente, sono
germanici.
Il nome “Francia” è quello d'un popolo germanico, ed è prevalso, per definire
questo popolo, sul substrato etnico-linguistico gallico. Come “Anglo-sassone” è
definita la Britannia, nonostante il substrato celtico. E un'altra iniezione di
sangue germanico le è venuta dall'invasione normanna, che ha posto sul suo
trono re normanni. Gli storici romani dicono che i Batavi, cioè gli olandesi,
erano popolo germanico, come lo sono i
fiamminghi del Belgio. La Norvegia e la Danimarca sono etnicamente custodi del filone più puro, direi anche
razzialmente, della germanicità.
Ebbene,
caro ragazzo, Hitler ha aggredito e fatto massacrare, ovviamente a prezzo del
massacro d'altri milioni di germanici, i
tuoi cari soldati della Wehrmacht ed SS,
milioni di militari e civili di sangue germanico.
Non
ho finito. Mi permetti d'includere, per il motivo detto prima, anche i soldati
USA, fra quelli d'origine germanica? Se non lo sai ti dico che negli alti gradi
della US Army ci sono stati e sono cognomi tedeschi purissimi, d'immigrati.
Ed
anche tutti quelli del Commonwealth, canadesi, sudafricani, neozelandesi,
australiani? Quante altre decine di milioni di massacrati dobbiamo aggiungere?
Mi
dici che Hitler pensava che tutti questi se la sarebbero fatta sotto e non
avrebbero mai affrontato i tuoi eroi?
In
definitiva: mai nella storia è avvenuta una strage di popoli germanici più
grande di quella scatenata da Hitler.
Ed a
questo era pervenuto dopo aver perpetrato qualcosa, ancora una volta, di mirato
contro il popolo tedesco, la repressione contro la resistenza religiosa e
politica, cioè l' eliminazione, in genere con la ghigliottina, per risparmiare
polvere da sparo, di tutti gli uomini e donne che erano il nerbo morale della
Germania.
Aggiungi
anche questi al conto del più grande nemico storico del popolo tedesco.
Pier
Luigi Starace 30/5/'21
DELLA PROPRIETA' INTELLETTUALE
Più d'una volta m'era capitato, nell'adolescenza, d'ascoltare i mugugni di quegli amici della parrocchietta che avevano organizzato una recita, e temevano la “visita” del rappresentante della SIAE ( Società Italiana Autori ed Editori), per sottrarci parte del misero incasso.
Ci sembrava strano che il padron di casa, il parroco, non avesse il potere d'interdirgli l'accesso.
Una volta un mio familiare mi disse che un suo progenitore aveva acquistato i diritti d'autore del “Barbiere di Siviglia”, e che quindi ogni volta nel mondo si rappresentasse quell'opera, qualcosa gliene veniva in tasca.
In questi giorni il tema della proprietà intellettuale è esploso con la faccenda dei
brevetti dei vaccini, e mi pare proprio il caso di riconsiderarlo a fondo, per evitare che questo serissimo argomento venga trattato con la superficialità e la cecità della rissa da stadio.
Assumo che l'essenza più profonda della creatività del genio, o scientifico o artistico, sia la gratuità del suo dono all'umanità. Che, per il genio, la coscienza del possesso di quel lampo di divinità superi infinitamente il possesso di qualcosa di materiale.
Intendiamoci, è naturale che, anche eventualmente contro la volontà del genio, la società lo retribuisca fornendogli il necessario per vivere. E' anche naturale che, tra i modi per realizzare questo fine, sia contemplato quello di esigere del danaro in cambio d'un beneficio goduto grazie a quella creatività, che, cioè, si paghi per un libro, un concerto, l'utilizzo d'un brevetto a scopo industriale.
Ma è anche naturale che, proprio a questo punto, si tracci una linea invalicabile.
Perché non è naturale che, venuta meno, con la morte del genio, la necessità di sostenere il suo corpo, e, reciprocamente, venuto a cessare questo dovere dell'umanità verso di lui, del danaro continui a correre, all'ombra del suo grande nome.
A correre verso chi? Degli eredi, che, magari senza muovere un dito, camperanno sui diritti d'autore vita natural durante? Verso degli arraffatori, o addirittura dei mafiosi che si compreranno quei diritti, per elevarsi ancora di più economicamente e socialmente?
Come nel medioevo i teologi rimasti fedeli alla condanna di Mammona da parte di Gesù spiegavano la condanna dell'interesse bancario con l'innaturalità del fatto che delle monete metalliche potessero copulare fra loro per generarne delle altre, e che quindi, se con l'interesse ciò avveniva, questa moltiplicazione era opera diabolica, vedo nell'innaturalità di questo flusso di danaro in nome d'una persona che non c'è più a profitto d' altre persone a lui estranee un atto di culto verso Mammona. Un'affermazione intimamente anticristiana di fede nel dogma mai più d'adesso trionfante nella storia:” il danaro è la misura di tutte le cose”.
Un azzeramento dell'essenza del valore d'un uomo: “ quanto è stato grande per quello che ha creato conta zero, è con quanti soldi fa smuovere “dopo” che si misura la vera grandezza”.
Non è assolutamente irrilevante che l'erezione di questa guglia nella skyline della città mondiale di Mammona sia stata concepita, e realizzata con implacabile pignoleria e spietatezza nell' United Kingdom di quando la borsa di Londra era il cuore finanziario del mondo, e da lì diffusasi in tutto il Commonwealth, tracimando poi ben oltre.
E vengo ad investire il punto sul quale si sta- mi pare troppo debolmente e distrattamente- discutendo in questi giorni.
All'idolo, al feticcio, al Moloc della proprietà intellettuale si persevera oggi ad immolare vittime umane, dopo, tra l'altro, le vergognose ripulse dei plutocrati farmaceutici alle preghiere di Mandela d'abbassare il prezzo di certi farmaci.
E' un momento di verità. Si vedrà oggi se tutto il sistema, attivato da più d'un anno al massimo della “comunicazione”, dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, del complesso di tutte le ditte dell'industria farmaceutica, dei ministeri della salute di tutti gli stati, delle regioni, sta facendo sul serio o no.
E il punto dirimente sarà proprio quello della proprietà intellettuale.
“Proprietà”. Parola terribile. Pur riconosciuta come diritto in tutte le encicliche
papali dal 1891 ad oggi, in ognuna di esse ogni papa afferma che esso deve essere limitato quando al suo esercizio assoluto s'oppone un bene comune più importante.
Si vedrà se tutta questa mobilitazione mai vista è stata generata fin dall'inizio ed organizzata poi dall'esigenza morale, civile e religiosa di salvare vite.
Ovvero se il target finale, quello vero, sia quello di portare avanti il più grande business della storia, e che tutti gli attori in esso implicati o arruolati potranno esser flessibili su tutto, meno che sull'ammontare del profitto che ognuno s'era calcolato in partenza.
PIER LUIGI STARACE
PIAZZA PULITA
Su Corrado Formigli e Paolo Mieli avevo sempre mantenuto un giudizio positivo, che si è incrinato profondamente giovedì 29/4, allorché, a “Piazza pulita”, dibattendo il tema della richiesta d'asilo politico in Francia di molti italiani perseguiti per “reati di terrorismo” negli anni ottanta, entrambi si sono schierati in modo vibrante contro quella soluzione, e corrispondentemente, a difesa della correttezza del comportamento dello stato italiano d'allora in quell'operazione complessa definita “lotta al terrorismo”.
Vorrei
ricordare a quei dioscuri dell'informazione, ma soprattutto al pubblico dei
giovani, i quali, diversamente da me, all'epoca di quei fatti non erano neanche
nati o erano ragazzi, che quella lotta ebbe un protagonista assoluto,
necessario e sufficiente per la successiva “vittoria”: il “pentito”.
Era
costui un membro d'una banda armata con sigla politica che, arrestato, si
vedeva offrire dallo stato benefici processuali, fino alla liberazione, in
cambio d'una lista di nomi di complici della stessa.
Questa
era un'innovazione nel nostro codice penale, - che venne definita tecnicamente “legislazione
premiale” - attinta da modelli come Tiberio, quell'”innovativo “ che, per
aggirare il divieto del diritto romano di condannare a morte una vergine, aveva
“risolto” così: “Beh, fatela violentare prima, e poi
ammazzatela”,
o la regina Carolina di Borbone, la sanguinaria nemica dei rivoluzionari
napoletani del '99, che avevano fondato il loro governo sulla delazione, ed
onorati i delatori come padri della patria. Nel linguaggio carcerario questa
figura era nota come “infame”, ed in quello popolare come “impunito”, vocabolo
che, nella Velletri in cui bambino ero, stavolta, io, era l'insulto più
sanguinoso che poteva essere lanciato.
Non
solo io, ma Rossana Rossanda con la rivista “Antigone”, giuristi come Luigi
Ferrajoli e Stefano Rodotà, magistrati come Luigi Saraceni, parlamentari come
Giuliano Vassalli, Marco Boato, intellettuali come Massimo Cacciari
denunciarono l'imbarbarimento di una legislazione che conferiva ad un
delinquente un potere enorme, e scarsamente limitato, di rovinare un'intera
esistenza solo facendo un nome.
Sì, perché
spesso la delazione non veniva saggiata su prove scientifiche, in omaggio ad
una presunta sincerità del “pentito”.
Il
peggio del peggio è stata un 'operazione, anch'essa animata da “pentiti”, per
criminalizzare
quelli che si ponevano “né con le BR, né con lo stato”, e che costituivano,
nelle fabbriche e nelle Università, il nucleo più intelligente, organizzato,
efficiente di resistenza all'attacco del padronato nazionale ed internazionale
ai diritti dei lavoratori: l'Autonomia operaia, di Toni Negri, Oreste Scalzone,
Franco Piperno, e tanti altri. Gli autonomi, anche se le loro rivendicazioni
erano spesso minimali, e se i loro mezzi di lotta erano scioperi e
manifestazioni, vennero omologati ai brigatisti, con un abuso dell'imputazione
per semplice “banda armata”, senza un preciso altro delitto, e nelle pene
conseguenti. Preoccupavano lo stato più ancora delle BR, e lo stato agì in
conseguenza. Se, anche sulla base delle argomentazioni dei giuristi di cui
sopra, veramente degni di cittadini della patria del diritto, alle quali dovemmo
allora e dobbiamo ancora la difesa serena di principi lesi dalla legislazione
premiale, lo stato francese aprì le porte a richiedenti asilo politico,
dovremmo guardar storto sia loro che il presidente Mitterand che le aprì?
Ecco, nonostante il sacrosanto richiamo
quotidiano a conservare la memoria storica, quel che è stato spazzato dai due
dioscuri via dalla piazza, che più che pulita, è rimasta vuota d'un pezzo
fondamentale di storia di quegli anni.
Impossibile
ora, pur senza aprire un altro tema, non ricordare che fu proprio allora, in
quello schiacciamento integrale dello stato sugli interessi del padronato, che
iniziò quello scivolamento verso il basso, verso “l'inferno” di cui parla
coraggiosamente Cottarelli, del lavoro nero di massa, dei “riders” puniti se
perdono tempo a fare pipì, delle pensioni di 250 euro mensili.
Ho
scritto più sopra “vittoria” fra virgolette. E non solo per l'atmosfera di
lutto nella quale operai, studenti, intellettuali che avevano degli ideali si
trovarono sprofondati, vedendo le loro iniziative di lotta abortire in
un'atmosfera in cui i rapporti di forza s'erano rovesciati.
Anche
perché, qualche anno dopo, quando tracimò l'ondata di “mani pulite”, tutti
poterono toccare con mano che cosa accadeva nei camminamenti sotterranei
sottostanti alle torri di guardia dalle quali i preconi dello stato della “lotta
al terrorismo”, Gustavo Selva, Leo Valiani, Bettino Craxi, Ugo Pecchioli,
ognuno avvolto nella bandiera col simbolo del proprio partito, lanciavano prima
epiche sfide all' “eversione”, e poi
assordanti “esultate” di vittoria.
Toccare
con mano che cosa? I miei coetanei lo sanno anche meglio di me, per i ragazzi
d'oggi lo dico io: in quei camminamenti i loro compagni di partito accumulavano
da anni i doni in danaro che, con commovente generosità e continuità, il
padronato, da essi così fedelmente servito, faceva scorrere verso di loro.
Per
saperne di più, ragazzi, cliccate su “tangentopoli”, sperando che Google o
altri ve la raccontino giusta.
Pier Luigi Starace 1/5/'21
MEGLIO NON FARLO SAPERE AI BAMBINI
“Progresso e civiltà hanno preso due vie irrimediabilmente divergenti, da quando sopra tutto la tecnica industriale si è consacrata alla raffinata trasformazione dei mezzi della guerra, che è inciviltà e distruzione per eccellenza. La capacità di distruggere (…) ci ha reso definitivamente barbari, ed ha distrutto tutte le residue conquiste della civiltà cristiana.”
Ernesto
Buonaiuti, 1937 (alla vigilia della seconda guerra mondiale)
Esistono
dei fondi pluriennali per investimenti e sviluppo infrastrutturale per 144
miliardi. Il comparto militare è riuscito ad intrufolarvisi e succhiarne quasi
36 dei 144.
Anche
nel budget del ministero per lo sviluppo economico ha messo le mani,
accaparrandosene il 30%.
E poi succede che dobbiamo importare apparecchiature mediche per 9 miliardi, perché tutto questo flusso possibile di finanziamento per queste industrie utili alla vita ed alla salute, è stato assorbito da quello per spese mirate alla morte ed alla distruzione.
Sotto
Renzi le autorizzazioni governative all'export di armi made in Italy, molto
appetite da regimi in guerra, sono state sestuplicate.
La
commissione difesa presieduta dall'on. Giorgio Mulè ha ultimamente trovata
l'unanimità nel decidere di attingere anche ai fondi europei anticovid per
il
complesso militare-industriale italiano. Dunque il nemico non è più il covid,
sono quei poveri disgraziati che saranno individuati come nemici dagli
acquirenti di armi vendute da industriali armieri italiani.
(
Quindi se gli ospedali continueranno ancora ad essere “tagliati” , ed i malati
di covid rimasti con conseguenze invalidanti potrebbero non avere
sostegni. Già sappiamo cosa c'è sotto il
“non ci sono più soldi” che i politici avranno il grugno di tirar fuori).
Mi
fermo, ma solo un momento: se voi, come me d'altronde, non avete saputo niente
di niente di questo dalla Tv e dai giornaloni, un motivo c'è: l'opinione
pubblica di massa conta come quella dei bambini, e, anche per evitare “
bambinate” di qualche politico “folle”, la cosa migliore è blindare
completamente l'informazione su certi argomenti.
Riprendo
prolungando il raggio d'osservazione sulla realtà militare.
Pur
confortati dal disimpegno USA in Afganistan, dobbiamo guardare con realismo a
qualcosa che ha già prodotte recentissimamente due guerre su suolo europeo, le
tensioni tra slavi: alludo a quelle tra Serbi e Croati culminate nella
distruzione attorno ed in Sarajevo, e tra russi ed ukraini con gli scontri nel
Donbass. Ebbene, il pur “moderato” Biden sta rischiando di lanciare un petardo
in una polveriera grande come l'Europa, Russia compresa. Sto accennando al suo
corteggiamento stringente dell'Ukraina per farla entrare nella NATO.
Una
volta effettuata l'operazione, basterebbe una fucilata sul suo territorio, e, a
fil della clausola di sicurezza collettiva, art. 5 NATO, tutta l'Alleanza,
Italia compresa, sarebbe scaraventata contro la Russia.
Ma
c'è di peggio, e lo ha annunciato recentemente un portavoce militare USA.
Questa
potenza ha prodotto missili ipersonici, cioè da 6 a 10 volte più veloci del
suono, e, diversamente da quelli balistici, con una traiettoria non prevedente
la salita nello spazio, ma una quasi retta, a parte la curvatura terrestre.
Risultato:da un lato impossibilità d'intercettazione, e dall'altro riduzione
del tempo di volo.
Già
Romania e Polonia sono pronte ad installarli, e da lì in meno di 10 minuti
potrebbero spazzare via Mosca.
Ce
ne vorrebbero molto meno allo scopo, se la NATO decidesse di piazzarli al
confine est dell'Ukraina.
Ciò
premesso, la Russia non starebbe a guardare, e sapete quali potrebbero essere i
bersagli d'una sua reazione, o attacco preventivo? Le basi NATO di Ghedi e
Aviano. Il tutto, vista l'estrema riduzione dei tempi, verrebbe affidato ad
intelligenze artificiali, le quali, spesso e volentieri sbagliano, quindi
l'eliminazione di milioni di uomini in qualche secondo sarebbe un semplice
“errore tecnico”.
Intanto,
per mantenere un “range” di rispetto nella graduatoria dei “furbi” in questo
campo, qualche sprazzo di verità è filtrato anche dall'informazione ufficiale, perché forse questi comunicatori che ci considerano tutti bambini hanno pensato
che siamo anche così scemi da inghiottire in silenzio certe cose.
Ci ha
fatto intravvedere un Di Maio “vuò cumprà” italiano su suolo egizio, che, calpestando da un lato il cadavere di Giulio
Regeni e dall'altro spintonando via con fastidio l'agonica speranza in noi di
Patrik Zaki, testimonia il proprio patriottismo aiutando le imprese italiane
produttrici di fregate e magari anche la bilancia dei pagamenti. Senza dimenticare il contributo
decisivo a mantenere in buoni rapporti il nostro paese con gli altri, da vero
statista democratico.
La
storia è lui, è Al Sisi, non quei due
ragazzi.
Questa
è la lezione fatta filtrare di chi ci tratta tutti da bambini.
Pier
Luigi Starace 18/4/'21
Dante e papa Francesco
Dante
rocker o perfino rapper, Dante testimonial d'agenzia turistica, Dante rovinato dalla politica, un perdente...Mi
fermo qui dopo un giretto nel supermercato delle commemorazioni. Per dir
qualcosa che non ho sentita da nessuno ( ma spero sia stata detta),magari sui
social media , alla cui frequentazione
sono allergico.
Dante
era terziario francescano. Diciamo quasi un frate, per il voto di povertà che
l'affiliazione al terz'ordine comportava. Soprattutto Dante a ciò credeva sul serio. Nell'abitazione familiare
fiorentina aveva delle camere a disposizione per
pellegrini
o “homeless”, nel caso che qualcuno non avesse trovato posto nel pur tante che
il vescovo, i parroci e gli ordini religiosi avevano allora per onorare il comando evangelico
dell'ospitalità.
Scrivendo
del suo esilio non si lamentò neanche mezza volta di aver dovuto convivere con
“Madonna Povertà”. Nel suo poema traccia una biografia completa di San
Francesco, profondendovi un'ammirazione che vibra solo in ciò che aveva scritto
per Beatrice.
Ciò
detto osserviamo l'aspetto complementare del suo amore per la povertà: la
condanna del suo opposto.
Nel
canto nono del Paradiso Folchetto di Marsiglia dice, alludendo a Firenze:
La tua città,
che di colui è pianta
che pria
volse le spalle al suo fattore
e di cui è la
'nvidia tanto pianta
produce e spande il
maladetto fiore
c'ha disviate
le pecore e gli agni
però che ha
fatto lupo del pastore
“La
tua città, che è nata dal seme del diavolo, invidioso di Dio, conia e diffonde
il
maledetto fiorino, che ha sviato il gregge dei cristiani, perché ha trasformato
il pastore in lupo” .
Qui
Dante istituisce un rapporto di filiazione tra Satana ed il danaro, in questo
caso il fiorino, così detto perchè portava impresso il simbolo del giglio
comunale. E' esso fiorino a produrre l'allontanamento della società cristiana dalla retta via, perché
il pastore, il papa, si è trasformato in lupo per l'avidità di quella moneta,
offrendo un esempio comportamentale inevitabilmente di grande efficacia
negativa.
E
che del papa si parli, oltre che dell'alto clero, è confermato, fra altri, da
questi versi:
del sangue
nostro Caorsini a Guaschi
s'apparecchian
di bere
Di
Cahors era papa Giovanni XXII, che aveva dichiarato esser falsa la tradizione
della povertà di Gesù e degli apostoli, e fatto bruciare vivi quattro
fraticelli francescani che lo avevano smentito, aveva estorto, con motivazioni religiose,somme
enormi alla povera gente, per ridistribuirle come “benefici ecclesiastici” ad
una cerchia di prelati gaudenti :
E la vostra
avarizia il mondo attrista
calcando i
buoni e sollevando i pravi
e guascone era papa Clemente V, “pastor sanza legge”,, ,
entrambi all'inferno come simoniaci.
Ancora
a proposito del papa caorsino Dante osserva che aveva dimenticato San Pietro e
San Paolo perchè devoto in modo assorbente a San Giovanni Battista: nel senso
che sull'altra faccia della moneta gigliata era raffigurato quel Santo, patrono di Firenze, con un'accoppiata poi
imitata dalla repubblica americana allorchè avrebbe stampato sul dollaro “In
God we trust”.
Dante
spiega come la simonia, cioè la strumentalizzazione delle cose sacre al fine di
soddisfare l'avarizia, sia paragonabile
a “bere il sangue nostro”:
già si
solea con le spade far guerra
or lo si fa tagliando, or qui, or qua,
lo pan
che 'l pio padre a niun disserra
“
Dio padre vuole che nessuno manchi del necessario, ed i simoniaci con le loro
esazioni riducono la fetta di pane spettante a ciascuno, generando fame, come
una guerra”. ( Meglio non si potrebbe sintetizzare la politica dei “tagli”
odierni allo stato sociale) .
San
Pietro stesso svergogna quei suoi successori:
Non fu
la sposa di Cristo allevata
nel
sangue mio, di Lin, di quel di Cleto
per
esser ad acquisto d'oro usata
Dante
stesso immagina di chiedere al dannato papa caorsino:
Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
nostro
Signore in prima da San Pietro
ch'ei
ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo
non disse se non “Viemmi retro”.
Tenendo ferreamente ferma la barra sulla
fondamentalità delle scelte di Dio come alternativa a Mammona annunciata da
Gesù e ripresa in tutta la sua pienezza dall'Assisiate
Fatto
v'avete Dio d'oro e d'argento:
e che
altro è da voi all'idolatre
se
non ch'elli uno, e voi ne orate cento?
Dante
colpisce come massima manifestazione satanica la divinizzazione del l'oro. In
questo seguito da Thomas More, e, più tardi, da Karl Marx.
Una
icastica contrapposizione tra primissimi cristiani e loro sedicenti seguaci del
primo '300:
Venne
Cefàs e venne il gran vasello
dello
Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo cibo da qualunque ostello
Or
voglion quinci e quindi chi i rincalzi
i
moderni pastori e chi li meni
tanto
son gravi! E chi dietro li alzi.
“Pietro e Paolo elemosinavano, magri e
scalzi, i prelati odierni sono così grassi che hanno bisogno di supporti
laterali per camminare, e posteriori per esser issati a cavallo”.
In
quanto alla situazione nei conventi San Benedetto in persona viene immaginato a
descriverla:
Le mura,
che solleno esser badia
fatte
sono spelonche, e le cocolle
sacca
son piene di farina ria.
Ma
grave usura tanto non si tolle
contro 'l piacer di Dio, quanto quel frutto
che
fa il cor dei monaci sì folle
che
quantunque la Chiesa guarda, tutto
è per
la gente che per Dio dimanda
non
di parenti né d'altro più brutto.
“Le mura della abbazie sono diventate
spelonche (di ladri), ed i monaci sono come sacchi contenenti
farina andata a male. Quei folli profittano di ciò che che è stato loro
affidato solo per i poveri a vantaggio di parenti o peggio: e questo è peggio
dell'usura. “
E
Dante, lamentando che il clero stia trascurando il Vangelo e gli scritti dei Padri,
nota che gli uomini di Dio abbiano maggiormente in bocca i commi delle
Decretali, di ben sei libri, con le quali soprattutto i papi del suo tempo,
avevano “grigliato” quello che ritenevano lo spirito della chiesa sulle
strutture del diritto romano. Ed il veder un “alter Christus” trasformato in
avvocaticchio furbetto e saccente che dimostrava quanti e quali diritti
vantasse la chiesa, muoveva a sdegno il terziario francescano.
Riavvolgendo
velocemente la bobina della storia del papato da papa Giovanni XXIII (non XXII
!) fino a Dante, notiamo che pochissimi e molto timidamente hanno
dato a San Francesco prima ed al vate tosco poi qualche soddisfazione. Anzi, figure di figli di
banchieri come il fiorentino Leone X Medici o il senese Alessandro VII Chigi
pare che abbiano plasmato il proprio pontificato con la lucida determinazione
di far anche peggio dei loro predecessori dannati da Dante. Soprattutto per questo la rottura operata
da Bergoglio m'appare d'una grandezza della quale mi pare pochissimi hanno oggi
la coscienza che merita, e della quale si può scorgere qualche sprazzo sia
nello scatenamento dei suoi nemici. Che qualcuno si preoccupi che questo
piemontese di ferro possa davvero dar fastidio al Mammona di Wall Street, delle
multinazionali e della finanza virtuale è qualcosa di positivo.
Pier
Luigi Starace 4/4/'21
Politica
militare e trasparenza
Ho
seguito il servizio di Riccardo Iacona di lunedì 22/3 sulla politica militare
in generale, ed in particolare dell'Italia.
Da
entusiasta di Don Milani, da partecipante alle manifestazioni degli anni
ottanta contro l'installazione degli euromissili in Sicilia, a quelle contro le
guerre dei Bush, da ammiratore e sostenitore di Gino Strada, mi sono sentito
impietrare.
Dunque,
dopo tutto ciò la politica militare effettuale largamente dominante negli
stati-guida, quelli dove vi sono fabbriche belliche, è, da un lato spendere,
con costante trend di crescita, in spese militari per rafforzare le proprie
forze armate, e dall'altro incassare, sempre in crescendo, dalla vendita di
armi prodotte dalle proprie fabbriche anche a stati dittatoriali oppressori dei
propri popoli, o addirittura in guerra con altri.
Dunque
a quello spirito disarmista che un Gorbaciov e perfino un Reagan, sulla spinta
delle massime autorità morali mondiali, religiose e laiche, e di centinaia di
milioni di persone mobilitatesi, avevano notevolmente realizzato, si è dissolto
nei “centri direzionali” della politica ed economia odierne.
Dunque,
dopo imboccata la buona strada dello smantellamento concordato di strumenti di
strage, è stato fatto un rovinoso scivolone all'indietro, fino al 1914,
quando,
scimmiottando la “volontà di potenza” della Germania del Kaiser, ovvero
ubriacandosi di nazionalismo, gli stati europei gareggiavano fra loro a chi
spendeva di più in armi e militarizzazione degli abitanti, non preoccupandosi, ma
eccitandosi che lo scontro fra essi avrebbe potuto disseminare la strage in
tutto il mondo, come infatti avvenne.
Dunque,
come nel '14 gli acciecati dal “sacro egoismo” vilipendevano rumorosamente la
Società delle Nazioni, oggi, sotto traccia, l'imprenditoria militare ed i suoi
lobbisti parlamentari e ministeriali sbeffeggia non a parole, ma a fatti l'ONU.
Ignorando o aggirando il divieto di vender armi a regimi che le usano contro i
propri popoli, o, addirittura a regimi in guerra, anche d'aggressione.
Il
silenzio sordo e certo ben retribuito dei media su cui galleggiano questi
crimini, è integrato da un “cordone sanitario” di “segreti”, ognuno dei quali è
formidabile nemico della trasparenza.Servizi segreti, segreto militare, segreto
industriale, segreto aziendale, segreto bancario, segreto di stato. Segreto: l'arma
irrinunciabile di tutte le tirannidi, l'elemennto più incompatibile con la
democrazia.
Al
riparo di questa blindatura a più strati si muove la politica militare, come Iacona
ci ha mostrato, in Italia con un'agghiacciante continuità da un governo
all'altro. Mentre molti eletti dal popolo stigmatizzano come insostenibile lo
stanziamento d'un miliardo per un reddito che salvi dalla fame centinaia di
migliaia di famiglie, una spesa militare di dieci miliardi viene accettato
dagli stessi con fidente fermezza. Mentre i suddetti eletti tagliano posti
letto ospedalieri, infermieri, ambulanze gli stessi trovano sostenibile l'acquisto
di aggeggi uno solo dei quali può costarci miliardi. Mentre il buon senso, le
radici cristiane e socialiste del nostro popolo vorrebbero che si attingesse al
bilancio della difesa per salvare vite umane dal riflusso dello stato sociale,
questi recettori della volontà popolare arrivano ad elemosinare da altri
ministeri per rimpolpare quello della difesa. Per loro “svuotare gli arsenali e
riempire i granai” non fa neanche ridere.
Per
loro, che a volte fingono di piangere pensando ai posti di lavoro perduti se
chiudessero le fabbriche di armi, non è mai esistita quella realtà europea
dell'immediato dopoguerra: la riconversione delle fabbriche militari ad usi
civili.
Per
loro vale non la Costituzione o l'ONU, ma il principio -cardine di tutti i
colonialisti, italiani compresi, per avere la botte piena e la moglie ubriaca:
riempire le tasche dei nostri industriali, commercianti ed intermediari vendendo
armi a paesi in guerra, e fare, in tal modo ammazzare fra loro tanti
“indigeni”, liberando spazio per noi. Ancora, venderle a chiunque: la fine
dell'Ambasciatore Atanasio ha mostrato la realtà d'un'Africa nella quale
l'opportunità più facile e redditizia per un giovane è quella di procurarsi
un'arma, ed entrare in una banda di rapinatori. E vale anche il principio che
noi produttori e procuratori di armi a mostri come Assad o lo sceicco Salman
non abbiamo ombra di responsabilità nei massacri dovuti a quelle armi, ergo il
dovere d' accogliere i profughi
prodotti da esse: crepassero a casa loro, e se la casa è distrutta è un
problema loro: il gruppo di Visegrad docet. Con una pernacchia a ciò che i
nostri nonni fecero ancora in quel '14, ospitando i profughi serbi e belgi
scampati all'aggressione dei Kaiser di Berlino e di Vienna.
Ho visto con sdegno indescrivibile i
bombardamenti dei curdi perpetrati con bombe italiane graziosamente vendute al
massacratore morale e materiale Erdogan, e l'indicibile vergogna, in cambio di
danaro, di rafforzare con fregate il potere militare di quell'Ad-Sisi che sputa
e sogghigna sia sul cadavere di Giulio Regeni che sulle sevizie a Patrik Zaki,
per dimostrare quanto sia illimitato il disprezzo che nutre per il nostro
paese, e-peggio- per l'ONU e qualsiasi principio di legalità.
In
conclusione penso che il quadro più generale nel quale si colloca questa
vergogna micidiale, anch'essa pandemica, sia la fondazione reale dell'”ordine”
attuale
nel “libero mercato”, come divinità suprema.
Se
l'essenza dell'uomo è quella di vendere e comprare, nulla e nessuno deve
sfuggire a questa legge. Tutto può e deve essere comprato e venduto a tutti da
tutti, perché tutto ha un prezzo. Anche le armi, rispettabilissime perché hanno
prezzi interessanti. Ogni tentativo di
calare dall'alto dei limiti a ciò si sostanzia in una sacrilega violazione del
diritto assoluto del dio mercato, la sua “libertà”. O non si chiama “libero
mercato”?
Finché
in alto ed in basso non verrà estirpata, come cerca di fare ad esempio papa Francesco,
questa fede immorale, anticristiana ed antireligiosa sarà difficilissimo
rientrare sulla buona strada del disarmo.
Pier Luigi Starace 27/3/'21
NE' DI DESTRA NE' DI
SINISTRA
Premetto che baserò questo intervento su una posizione che generalmente viene definita “ideologica”. Chi crede alla fine delle ideologie passi oltre,
e
guadagnerà quel vantaggio prezioso alla formazione culturale che è il non aver
perso tempo dietro stupidaggini.
Per
chi avesse deciso di seguirmi, prenderò l'argomento un po' alla larga.
A partir
dallo “smuro” di Berlino tutto ciò che era “di sinistra” cominciò a puzzare di
“comunismo”, di “ideologia”, di BR, a divenire decisamente sgradevole ed anche
sospetto, sia in Parlamento sia nella vasta fascia d'opinione pubblica che in
Parlamento ci mandava i deputati.
E
così, da un lato per non passare per destrorsi, dall'altro per comunisti, e
soprattutto per sentirsi al di sopra ed avanti alla vecchia classe politica,
sempre più giovani leoni si sono proclamati con orgoglio “né di destra né di
sinistra”.
Ebbene,
a mio avviso ciò è molto più grave del peggior qualunquismo, perché la loro
enunciazione è una “boutade” ingannevolissima. Non c'è nessun atteggiamento
politico, nessuna legge i cui effetti possano favorire o colpire equamente sia
la fascia superiore che quella inferiore della società, che non produca un
rafforzamento d'una a spese d'un indebolimento dell'altra, che alteri il
precedente rapporto tra loro, insomma che non sia o di destra o di sinistra.
Partiamo
da un esempio generalissimo, la posizione sull'ordine pubblico.
Per
la destra è un problema la cui risoluzione è affidata a manganelli,
lacrimogeni, manette, pestaggi energici, processi stile “tribunale speciale”, e
tanta, tanta galera.
Per
la sinistra (quella vera) è un problema la cui risoluzione è affidata al mantenimento
o rinnovamento di tutte quelle istituzioni di stato sociale che, come tubi
fessurati d'un acquedotto, lasciano “drop out”, attraverso porte chiuse in
faccia, non risposte ad invocazioni più che legittime, scarica barile tra
uffici, persone che necessariamente, per la mera sopravvivenza fisica, dovranno
delinquere, o rubando, o prostituendosi, o cercando la protezione della
criminalità organizzata.
Più
analiticamente mandare la gente in pensione oltre i sessant'anni, lasciar
affondare i gommoni fingendo di non vedere, rinviare sine die l'introduzione
del reato di tortura, abolire il minimo salariale, chiudere ospedali interi o
reparti all'interno di essi, multare i mendicanti (vedi sindaci di Como e
Genova) sono cose, oltre che della destra ufficiale odierna, della peggiore del
passato. Chiunque le avvalli e voti si auto dimostra orgogliosamente di quella
destra, ed incompatibile con la sinistra.
Il
reddito di cittadinanza, l'apertura ed il finanziamento di dormitori pubblici
anche per le migliaia di homeless italiani, una tassa sui grandi patrimoni, il
curare gratuitamente chi è senza soldi (vedi Gino Strada), il gestire centri
sociali accoglienti e valorizzanti chi è stato abbandonato dalle istituzioni,
sono cose naturaliter di sinistra. Chiunque le pratichi e le voti si auto dimostra
di sinistra, ed incompatibile con la destra.
In
conclusione, dal momento che la distinzione tra destra e sinistra è immanente
all'intera realtà politico-economica, la divisa “né di destra né di sinistra”
ha un solo senso: l'astensione dalla politica.
I padri
della democrazia, i Greci, quando individuavano, osservando la lotta politica
dei cittadini, che si contrapponevano su una decisione, uno che non stava né
con gli uni né con gli altri, lo chiamavano “idiota”.
Non
era un insulto, voleva solo dire “individuo privato”, cioè che pensa solo a sé
stesso, e sottintendevano che poteva fare quello che voleva, l'artigiano,
l'attore, l'atleta, ma non l'uomo politico.
Oggi
sembra che lo possa fare, pur con un “outing” esibito della propria “idiozia”,
e raccogliere milioni di voti. È così perché lui dice di credere alla fine
delle ideologie, e tira fuori liberamente dal sacco di destra e da quello di
sinistra l'oggetto che, in quel preciso attimo, piacerà di più alla pubblica
opinione. È così perché quest'ultima, che crede sul serio alla fine delle
ideologie, lo applaudirà, e voterà.
FRATELLI TUTTI
L'
enciclica successiva, del 2020, d'inusitata lunghezza, 286 paragrafi, alcuni
dei quali molto lunghi, squaderna un aspetto che ritengo dominante in
Bergoglio, quello dello psicologo.
Non
nel senso di “ Psychologia ancilla
theologiae”, ma semplicemente “fidei”.
L'anima
dell'estensore appare configurata, in ogni atteggiamento, quasi in ogni frase,
dalla straordinaria efficienza dell'assimilazione di quel principio singenetico
alla nascita delle religioni, che è quello di ritenerle funzionalmente
psicotrope, psicagogiche, psicoplastiche,psicoterapeutiche.
Non
era forse Gesù un penetrante psicologo?
E,
senza minimamente addarsene, per la francescana semplicità e chiarezza di
linguaggio, Bergoglio parla da psicopatologo, psicologo del subconscio,
psicologo familiare, psicologo sociale, psicologo del disagio, psicologo delle
varie fasce d'età, psicologo dei conflitti, psicologo dei media. Vedo in
lui
tesaurizzato, previo un rigorosissimo filtraggio di scorie, l'incalcolabile
lascito esperienziale di decine di generazioni di confessori gesuiti, quelli
che, tra l'altro, nel compito di cui s'erano investiti, di “ direzione
spirituale”
delle
classi dirigenti, avevano in pugno quello della “direzione politica” della
stesse e dell'intera società.
Filtraggio,
ho detto. Perché, all'opposto d'ogni machiavellismo e “gesuitismo” in senso tradizionale, anche
Bergoglio mira alla direzione politica universale. Non per altro che per far
tornare la chiesa alla costruzione del “governo di Dio” nella storia, senza di
che l'incarnazione non avrebbe avuto alcun senso.
E'
esattamente in ciò che vedo la “cattolicità” bergogliana.
“Quel
“sopra a tutto e tutti”, imperialistico, arrogante, cogente, pesante come il
corpo d'una regina sulle spalle dei portatori, che si stava dissolvendo
nell'immagine plasmata da Giovanni e Paolo, ora proietta la chiesa
“francescana” come immagine del tutto altra.
Si
fa il chinarsi trepido e tenero della madre, condensante in sé ed irradiante da
sé la più alta concentrazione di bellezza nella verità e bontà,
di
bontà nella bellezza e verità, di verità nella bellezza e bontà (non era questa
la scansione trinitaria di Dio secondo Socrate e Platone?) sui “fratelli tutti”
che la contemplano.
Una
maternità che cerca di soccorrere, alleviare, guarire, imboccando ad ogni
delusione nuovi percorsi d'anima creati dal suo amore.
Una
maternità aperta a sintetizzare gli opposti estremi d'una concretezza precisa e
d'una spiritualità altissima.
Una
maternità “cattolica” perché, volando sopra ogni steccato ideologico o
confessionale, s'apre a tutti gli uomini, riecheggiando splendidamente l'”ut
unum sint” giovanneo.
Vedendo
impossibile riassumere la complessità del testo, mi limiterò ad antologizzare,
limitandomi, per il resto, ad indicare, nel capitolo secondo, una straordinaria
esegesi della parabola del buon samaritano, che ricapitola analiticamente tutta
l'essenza del cristianesimo.
“Diminuire
l'autostima di qualcuno è un modo facile per dominarlo.”
“Chi
innalza un muro resterà prigioniero di ciò che ha costruito”.
“Nessuno
può sperimentare il valore della vita senza volti concreti da amare”.
“Cuori
aperti attorno a sè”.
“Cuori
che si lasciano completare”.
“Uguaglianza,
ma nella diversità”.
“Come
se, accumulando ambizioni e sicurezze individuali, si potesse costruire il bene
comune”.
“Il
diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale
secondario, e derivato dal principio della destinazione universale dei beni
creati”.
“Ogni
paese è anche dello straniero”.
“La carità
non ha un'unica metodologia accettabile, sono tante, e devono collaborare”.
Critica
“l'organizzazione della società al servizio di chi ha già troppo potere”, “l'illusione
neoliberista del “gocciolamento””, “la speculazione che fa strage”, ed auspica
“una politica sana, non sottomessa al dettato della finanza”, un superamento
delle politiche sociali concepite “verso i poveri” invece che “con i poveri”,
un 'ONU “famiglia di nazioni”, una politica come “una delle forme più preziose
della carità”, un “amore politico”.
Ancora:
“le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi; ”la pace sociale è artigianale”.
CONCLUSIONE
Alla
fine di questa rassegna di encicliche, una conclusione senz'altro discutibile,
ma comunque possibile, e, per me, auspicabile: un'altra enciclica bergogliana,
per la quale sono sicuro che tutti i materiali e le risorse umane già esistono,
nella quale, con la magistrale capacità volgarizzatrice dimostrata da tutti gli
estensori precedenti, venga descritto
analiticamente
e completamente ciò che Paolo VI definiva “il meccanismo dell'economia moderna
che porta verso un aggravamento, e non un'attenuazione, della disparità dei
livelli di vita”, ovvero, come definito dopo, “sistema di peccato”.
E'
vero che in tutte le encicliche vi sono guizzi d'illuminazione di singole parti
di tale marchingegno, ma manca la visione totale di esso e del suo funzionamento.
Soprattutto
riguardo ad esso il lettore prova l'impressione di forze fuori del controllo
umano, impressione che è quella della stragrande maggioranza dell'opinione
pubblica.
“Ciò
che è stato costruito da mano d'uomo può essere distrutto da mano d'uomo”,
ammonisce Agostino.
Per
fare ciò – smontare, meglio che distruggere- il meccanismo, bisogna prima
conoscerlo, e per conoscerlo spiegarlo, come quello del motore e del suo
funzionamento a chi vuole vuole imparare a guidare.
Per
spiegarlo bisogna tracciare con rigore scientifico la linea di demarcazione tra
ciò che è naturale e necessario e ciò che non lo è, e che quindi può esser
modificato o eliminato.
Tra
la radiazione solare e Wall Street, tra il tempo di rotazione d'un pianeta ed
il tasso di crescita d'un Pil, tra la temperatura del magma d'un vulcano e
la
digitalizzazione universale.
E,
per le scelte conseguenti, accanto al Vangelo- e non c'è bisogno di ricordarlo
a Bergoglio, tiene una copia dell'opera maggiore di Thomas More.
LA PARTE SOCIALE
DELLA LAUDATO SI’ DI FRANCESCO
Già
in copertina c’è scritto “casa comune”; nell’interno, tra le espressioni più
reiterate, troviamo “bene comune”, “beni comuni”, “eredità comune”.
Francesco si sporca la bocca con questo aggettivo per
evitare il quale, a parte una minoranza ridottissima alla quale rivendico
d’appartenere, tutto il resto della gente, soprattutto i più acculturati,
trovano sinonimi.
Passo
alle citazioni.
Nei paragrafi 123 e 154 denuncia “la reificazione della
persona” nel rapporto di lavoro schiavista. Nel 128 “ la riduzione dei costi di
produzione in ragione della diminuzione di posti di lavoro”. Nel 189” il
salvataggio a ogni costo delle banche facendo pagare il prezzo alla
popolazione…il dominio assoluto della finanza, che non ha futuro…che segue
criteri obsoleti”. Nel 109:” la finanza soffoca l’economia reale”.
Nel
190 attacca “la concezione magica del mercato”. Nel 109:”Il mercato da solo non
garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale”.
Nel
56 “l’ambiente rimane indifeso rispetto agli interessi del mercato divinizzato,
trasformato in regola assoluta”.
Nel
38, a proposito dell’idea d’internazionalizzazione dell’Amazzonia “ :essa serve
solo agli interessi delle multinazionali”.
Nel 69, cita dal “Levitico”:”Le terre non si
potranno vendere per sempre, perchè la terra è mia, e voi siete presso di me
come forestieri ed ospiti”.
Nel
71:”Il dono della terra coi suoi frutti appartiene a tutto il popolo”
Nel 93:”La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto
come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata”. ( Vero, ma ciò
non ha impedito a più pontefici d’affermare, della proprietà privata, l’origine
divina.)
Nel 164 riprende lo strumento comunista della pianificazione,
in opposizione all’attuale gioco del mercato.
Proseguendo nell’arricchimento giovannèo
dell’aggettivo “cattolico”, Francesco si rivolge a tutti, anche agli atei,
nell’appello alla salvezza della casa comune. Non pone la chiesa come
monopolizzatrice di quest’opera, e neanche egemone. Dovunque vedano uomini di
buona volontà che agiscano in quel senso, egli invita i cattolici ad unirsi a
loro, per aiutarli, per prestare un servizio, secondo il comando di Gesù a “chi
vuole comandare”.
RERUM NOVARUM
La “Rerum novarum” di Leone XIII, il papa carpinetano, nel
suo insieme contiene enunciazioni che remano contro quelle che trascriverò,
come la condanna indiscriminata del socialismo, dell’associazionismo operaio
non “cattolicizzato”, dello sciopero,la giustificazione della fatica come
conseguenza del peccato originale, la naturalità della stratificazione sociale,
ma soprattutto una santificazione della proprietà privata, a volte contraddetta da limitazioni. Ma non è affatto
un giudizio storico o religioso su questa enciclica che voglio pronunciare,
quanto metter sa confronto certe affermazioni del 1891 con la realtà del
2020.
“IL FRUTTO DEL LAVORO DEVE
APPARTEBNERE A CHI LAVORA”. No comment.
“Il lavoro dell’operaio forma la
ricchezza nazionale”. Non solo quello dell’imprenditore, dunque, come va di
moda dire oggi!
“…doveri verso Dio assolutamente
inviolabili. Da qui segue la NECESSITA’ del riposo festivo”. Conoscete qualche
imprenditore così cristiano che almeno a Natale si ricordi di questo? Io no. Ne
conosco di quelli che il primo maggio fanno lavorare più del solito.
“Il quantitativo della mercede
non deve essere INFERIORE al sostentamento dell’operaio frugale e di retti
costumi.” E il lavoro nero stratollerato, l’abolizione del salario minimo, i
“working poors”?
“Defraudare la dovuta mercede è
colpa così enorme che GRIDA VENDETTA AL COSPETTO DI DIO”. E chi, defraudata o
meno, nei modi di cui sopra ritarda di
mesi la liquidazione della mercede, e si presenta come buon cristiano?
“E’ dovere sottrarre il povero
operaio all’inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza
alcuna discrezione delle persone come fossero cose”. Dimostratemi che qui il
supremo magistrato del cattolicesimo NON condivida a fondo le intuizioni
marxiste dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della reificazione del
lavoratore.
“Non è giusto ne è umano esigere
dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa fatica e da
fiaccarne il corpo…non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto
comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla quantità del lavoro, dalle
circostanze di tempo e luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai.
Il lavoro dei minatori (…..) va compensato con una durata più breve. Si deve
ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente
sopportabile in una stagione, è in un’altra del tutto insopportabile “. Segue
una condanna del lavoro minorile, e dell’approfittare di quello femminile senza
rispetto per la maggior delicatezza della donna.
Poi riprende una seonda volta:”
In generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo necessario
all’operaio deve esser proporzionale alla quantità delle forze consumate nel
lavoro…Un patto contrario fra padrone e lavoratore sarebbe immorale, non
essendo lecito a nessuno CHIEDERE O PERMETTERE LA VIOLAZIONE DEI DOVERI CHE LO
STRINGONO A DIO E A SE STESSO”.
E le morti per fatica o per
incidenti da fatica, gli orari che contemplano il salto della pausa pranzo, le
ore di lavoro in numero doppio di quelle di sonno, gli ispettori del lavoro
intimiditi e ridotti di numero, i minacciati di licenziamento se s’azzardano a
denunciare questi crimini contro l’umanità?
Concludo con la constatazione
della “ divisione della società in due caste, tra le quali è scavato un abisso.
Da una parte una fazione strapotente perché straricca, la quale, avendo in mano ogni sorta di
produzione e commercio, sfrutta per sé tutte le correnti della ricchezza, ed
esercita pure sull’andamento dello stato una grande influenza.”( Allora è vero
che lo stato è il comitato d’affari della borghesia?) “Dall’altra una
moltitudine misera e debole, dall’animo esacerbato, e pronto sempre a tumulti.
Ora, se in questa moltitudine
s’incoraggia l’industria con la speranza d’acquistare stabile proprietà, una
classe verrà avvicinandosi a poco a poco all’altra”.
Se la constatazione iniziale è
validissima anche oggi, la conclusione propositiva no.
Dieci anni dopo queste parole già
lo stato giolittiano si muoveva tenendo conto di esse, come poi avrebbe fatto
il keynesismo, ivi compreso quello fascista, e lo stato assistenziale del
dopoguerra: in una parola l’avvicinamento tra classi auspicato da Leone XIII
s’era in vari modi realizzato.
Oggi che, a partir dal crollo del
comunismo, il trend di fondo del
meccanismo economico mondiale è accelerare la spoliazione della superstite
classe media e nello stesso tempo nella riduzione del numero degli “strapotenti
straricchi”, in modo che ognuno di essi lo sia ancor di più, sarebbe penoso
parlare di “avvicinamento”.
In questa crisi almeno papa
Bergoglio fa due cose insostituibili : denuncia senza giustificazionismi questo crimine anticristiano, e lotta ogni
giorno contro la miseria che esso produce, a cominciar da quella della città di
cui è episcopo.
“Centesimus
annus”, il Woityla “Leone Pio”
Lo dico subito perchè, dando i numeri: le citazioni di
questa enciclica woityliana da quelle
precedenti, incluse le numerosissime autocitazioni dalle proprie, sono decine di Leone XIII, 7
di Pio XI, 7 di Paolo VI e solo 4 di papa Giovanni.
Altri numeri: il 100 è il numero degli anniversari della “Rerum
novarum”, il 2 quello degli anni trascorsi dall’abbattimento del muro di
Berlino, simbolo di ciò che anche per la grandezza della fede di Padre Karol “era
follia sperar”, l’abbattimento del comunismo.
Fin dall’inizio il toro è preso per le corna. “Lo
sfruttamento è ormai sconfitto in Occidente, almeno nella forma descritta da
Karl Marx.” Poi : “Se per capitalismo s’intende un sistema economico che
riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della
proprietà privata, la risposta è certamente positiva”.
Nel nome di queste tre persone d’una trinità
astratta, le ipostasi concrete delle quali sono l’imprenditore, il broker ed il
banchiere, il Vicario dell’ideatore della parabola di Lazzaro e dell’epulone ha
celebrato un battesimo storico.
C’è anche una tirata d’orecchi allo “stato
assistenziale” (la cui colpa sarebbe d’aver obbedito alle precise indicazioni
di Leone, di Pio XI, e soprattutto di papa Giovanni) perchè costa molto e non
ha sensibilità verso gli individui. O quella denominazione puzza troppo di
“stato socialista” , cioè di zolfo?
Nel solco di Pio XI dichiara “ impossibile la
conciliazione tra marxismo e cristianesimo”. Poi “il comunismo ha radici atee”
(anche quello degli Apostoli?”). La lotta di classe è paragonabile alla “guerra
totale” ( uno sciopero per non crepare di fatica o di fame paragonato
all’attacco dal cielo, dal mare e per terra della Wermacht alla Polonia?) “Chi
si illude di poter costruire il paradiso in questo mondo trasforma la politica
in una religione secolare. Ma qualsiasi società politica non potrà essere
confusa con il regno di Dio, che verrà dopo il giudizio finale”. ( Ma Chi aveva
annunciato che “il regno di Dio intra vos est” “?)
Poi i colpi alla botte capitalista. Riconosce che se
alcuni s’accaparrano troppa proprietà privata essa sarà negata a molti. Al “che
fare “ la risposta è “la chiesa non ha modelli da proporre”.( E San Tommaso
More?)
Riconosce che il capitalismo produce ”un complesso
di relazioni d’esasperata competitività e di reciproca estraniazione”, la
negatività dei “nuovi bisogni indotti”. Sottolinea l’empietà della distruzione
dell’ambiente. Poi un grande colpo, nel tono:” La proprietà dei mezzi di
produzione diventa illegittima quando non viene valorizzata, o serve ad
impedire il lavoro di altri, per ottenere un guadagno che non nasce
dall’espansione globale del lavoro e della ricchezza sociale, ma piuttosto
dalla loro compressione, dall’illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla
rottura della solidarietà nel mondo del lavoro. Una tale proprietà non ha
nessuna giustificazione, e costituisce un abuso al cospetto di Dio e degli
uomini”.
Parole altisonanti, ma, in ognuno degli
atteggiamenti condannati, la linea di demarcazione tra lecito ed illecito è
estremamente, fluida, relativa, opinabile soprattutto flessibile ai supremi
interessi della trinità capitalista.
Un vuoto enorme: non una sola volta viene almeno
citato il massimo fattore di sfruttamento dei paesi più poveri, e di
aggressiva sfida ai poteri degli stati:
il capitalismo multinazionale.
Impossibile negare che anche questa enciclica abbia
catalizzato l’ascesa politica d’un
Berlusconi, l’orgogliosa definizione dell’Italia come “azienda”, il volitar di
Marcinkus di banca in banca.
Negare che non abbia influito, su un più vasto orizzonte, a trasformare quelli che nel patto di Varsavia si
riconoscevano paesi fratelli, e che aiutavano quelli del terzo e quarto mondo
verso l’”unum” d’una comunione globale, in stati capitalisti, in competizione
fra loro, e poi, con l’additivo della “riscoperta identitaria” , a farli
guardare in cagnesco, a creare faglie all’interno, fino alla scissione
(Jugoslavia, Cecoslovacchia) , fino alla guerra ( ancora Jugoslavia, e poi
Russia e Ucraina). Fino, un giorno a Visegrad, estirpare, in nome d’un
cristianesimo solo storico, le proprie radici cristiane, nel segno odioso dello
sbarramento delle frontiere ai profughi.
Come se la solidarietà internazionale fosse un
inutile fardello del comunismo, del quale sgravarsi una volta per sempre, ed il
cristianesimo un “collante-eccitante” per grandi adunate ubriacanti d’identità
nazionale.