APPUNTI

DEMOLITION WAR E VOLONTA' GENOCIDA

Alcuni saranno stati d'epoca socialista, altri dell'ultimo trentennio d'indipendenza, quegli edifici di dieci-quindici piani,non “towers” private, ma abitazioni popolari sfruttanti la verticalità per evitare il consumo del suolo, ora all'incrocio tra quei lunghissimi rettilinee delle strade ucraine, ora alla periferia, ora all'interno delle città. Immagino con commozione le prime generazioni assurte dal contatto con la terra dell'izbà a quei piani alti, da ognuno dei quali, in progressione ascendente, si poteva abbracciare una superficie più vasta del giallo oro della sterminata pianura, una parte più estesa di patria,  sotto il blù squillante del cielo.

Ora tanti di essi sono stati sfrontati, smembrati, sventrati a capriccio della bomba termica, del missile, del proiettile d'artiglieria che li ha urtati o trapassati o centrati.

Nulla sarebbe  più luttuosamente squallido delle graticole nere delle facciate rimaste in piedi, se non ci fosse lo spettacolo degli interni, in cui fotografie di famiglia su un tavolo sono sommerse da calcinacci, frammenti di vetro di finestre o lampadine frantumate.

Ma anche abitazioni più umili, izbà d'altri tempi , sono state scoperchiate, le pareti in parte abbattute ed in parte diroccate, la furia chimica e minerale degli esplosivi è stata incanalata direi meticolosamente anche alla distruzione delle aie, stalle,  pollai, conigliere, orticelli.

Impossibile liquidare questo come “demolition war” e basta, come l'abbiamo sperimentata noi stessi da parte alleata. Sarebbe un'infame viltà intellettuale non

chiedersi se quest'orgia distruttiva, ufficialmente spacciata da Mosca per una specie di operazione rieducativa d'un popolo riottoso, non sia che l'involucro, micidiale è vero, ma solo involucro, d'una volontà genocida di fondo, d'un unico disegno criminoso soggiacente, col vincolo costante della continuazione e dell'aggravamento, al bombardamento  d'abitazioni civili. Il  quale, non dimentichiamolo, è sempre e comunque un crimine di strage o tentata strage.

Volontà che si sostanzia inoppugnabilmente in altri comportamenti dell'aggressore: il primo dei quali la ripresa del bombardamento dopo la fine annunciata dalla sirena, allo scopo di, eliminando i soccorritori delle vittime, ottenere  un maggior numero di morti fra i colpiti dalla prima ondata, a causa del forzato venir meno di soccorso. In questa ottica s'inserisce  il bombardamento metodico degli ospedali . Meno medici e strutture, tanti più morti dissanguati.   La messa fuori servizio d'impianti idrici, energetici, di rifornimenti come supermercati, il tiro al bersaglio contro le code di persone in attesa d''una distribuzione di cibo, tutto ciò dichiara una precisa volontà: chi è sopravvissuto alle armi, deve esser eliminato con la fame, intorno a lui l'ambiente deve essere invivibile.  Sotto apparenza non rumorosa serve efficacemente alla volontà genocida ogni  rinvio, sospensione o blocco di corridoi umanitari: tutta quella gente potrebbe tornare, ed è meglio impedirlo preventivamente, costringendola  sotto i bombardamenti,  che faranno un bel po' di pulizia. Ma anche l'avvio d'un convoglio del genere non osta alla soluzione finale per i volenterosi del genocidio: si può sparare da trincee lungo la strada ad autobus o auto cariche di vecchi, donne e bambini, oppure, più facilmente, bersagliare di quelli che scappano a piedi. Le stragi indiscriminate di civili, soprattutto i più deboli,  o politicamente discriminate, nei luoghi “liberati” dall'armata russa. Una manifestazione irrefutabilmente chiara di volontà genocida è nell'accanimento illimitato nella demolizione di reparti maternità, asili nido, scuole, palestre: i bersagli prioritari dell'operazione devono essere i bambini e i ragazzi, perchè loro saranno i nemici di domani. Sacrosanta è la pertinacia di Zelenski nella conta dei bambini massacrati.E potrei continuare.

Infine, quello che è spudoratamente proclamato e che nessuno può smentire è il genocidio culturale. Parchi, statue, monumenti, teatri,  chiese esaltanti la storia ucraina devono e dovranno cambiar nome, o esser abbattuti e rimossi.  

 

Permettetemi un'evocazione storica. Questa straripante eppur coordinata ed efficiente volontà genocida sembra suggerita a Putin da un lancinante desiderio d'offrire una vendetta agli zar Caterina II e Paolo.” Voi avevate “regalato” delle città come Novo Rossii ( oggi Nipro) e Odessa a questi barbari, e loro vi ringraziano inventandosi un'autonomia, e nel segno antirusso. Ma ora io vi vendico, fino a che il potere russo non sia riaffermato in Ucraina, a costo d'una sostituzione etnica fondata sul genocidio”. 

E  le sottili disquisizioni linguistiche, giuridiche, politiche  e “tecniche” con le quali oggi si bacchetta chi usa questa parola nei confronti del dello scatenatore di queste stragi e massacri le lascio a Enrico Mentana ed imitatori.

      

Pier Luigi Starace




RICERCA DELL'ORO

Immerso nel  flusso mai visto d'informazioni su una guerra,  mi sento ora  nella funzione d'un cercatore che, dal materiale trascinato scarta tutto, meno le tracce, i granuli, la pepite d'oro.

In altre parole sento il bisogno, per quando l'alluvione d'immagini, travolte e contese  dalle correnti concorrenti o confliggenti delle “narrazioni”sarà cessata,  allontanare, rimuovere, magari con rabbia, ciò che ritengo meglio dimenticare, e salvare, isolare, proteggere e fissare per più tempo possibile nella memoria ciò che a me, a pochi, o a tanti sia sembrato o sembri degno di ciò.

Finalmente: raccogliere come fiori meravigliosi, nati sul ciglio d'abissi strapiombanti su crateri in eruzione o su ghiacciai senza vita, manifestazioni di forza morale e d'umanità sbocciate, quasi in sfida suprema, a fior  della disumanizzazione bellica.

Il 25/2, primo giorno dell'aggressione di Putin, a Nipro, l'ospedale centrale della città era letteralmente avvolto  da una coda ordinata di donne. Dalle loro posture  qualcosa di diverso e superiore rispetto alla stanchezza  rassegnata di quella condizione tracimava a tratti dal profondo,  una dedizione intima, un'oblazione irreversibile, una determinazione pensosa e grave.

Aspettavano il proprio turno nella donazione del proprio sangue per i quelli che fra poche ore ne avrebbero avuto bisogno, i loro fidanzati, mariti, figli, pronti a versare il loro in prima linea.

Per un attimo ho rivissuto il brivido provato contemplando “Il giuramento degli Orazi”, di David, ad una mostra romana. Il sangue dei miei 16 anni d'allora pulsava più forte man mano che , con lo sguardo, penetravo nell'anima dei tre eroi, tesi nella promessa  di vincere o morire.  

Proprio come il mio sangue d'oggi, scorrendo con gli occhi la fila delle eroine.

 

Ancora di quei giorni, un breve filmato: stavolta riproduzione esatta della situazione del quadro del pittore francese.

In un orto di campagna, sulla destra, un bambino sui cinque anni, con un bastone forse tratto da un ramo d'albero, che, con parole di comando, ordina dei movimenti a tre altri bambini,  davanti a lui, un po' più piccoli, il più piccino avrà tre anni, anche loro con un bastone.

Il timbro di voce dell'”istruttore”, lo scatto dei suoi movimenti, il ritmo martellante in cui si dipanano, plasmano senza la minima sbavatura il timbro di voce delle risposte, la rapidità dello scatto, il ritmo dell'esecuzione degli altri tre.

Cerco, invano, seguendo il più piccino, di sorprendere in lui un segno, per quanto impercettibile, di minor forza, d'incertezza, di smarrimento. Niente.

Sento echeggiare nelle fresche voci le parole dettanti i movimenti: slava Ukrainy. gheroi slava. “Gloria all'Ucraina, agli eroi gloria”.

Era il giuramento dell'esercito ucraino.

18/3/'22 Mikolaiv. Un brevissimo spezzone. Dalla scalinata d'un  budello cementificato afferente dal sottosuolo dove s'annida un rifugio, salgono dei militari, intuisco dalle barbe che sono ceceni.Uno di essi, un colosso, dal viso rubicondo di montanaro, stringe una neonata ucraina al petto. Mi par di vedere  che l'innocente non è turbata, che percepisce solo il calore di quel torace rassicurante, quel calore di paternità che, più forte d'ogni altro istinto, dilaga nelle fibre di quell'uomo, che deve aver tante volte preso in braccio così i suoi figli,  e trova naturale il farlo anche lì ed allora. Forse lo conforta in  quel momento il ricordo di qualche insegnamento ricevuto in una moschea, o che nei secoli i suoi antenati avevano ricevuto, che salvare una bimba è cosa gradita ad Allah.

Ma lo spezzone finisce, lasciandoci soli con quella speranza.

Pier Luigi Starace

 

 

 

 




IL MODELLO RUSSO ATTIVATO IN MALI

Una estrema sintesi introduttiva all'argomento.

Cronologicamente quasi in contemporanea con la comparsa del covid, e  politicamente per l'atteggiamento macroniano di sorda e distante freddezza  verso l'ex “Sudan français”, era montata in Malì un'ondata diffusa di sentimento antifrancese, non estranea al colpo di stato che aveva portato un militare al potere, quindi a cacciata di diplomatici francesi da Bamako, con ritorsione di Parigi, ed anche europea,  tramite  sanzioni contro il Mali, con motivazione ufficiale del ritardo del nuovo governo maliano ad indire elezioni.

Sanzioni scaraventate su un popolo quanto mai necessitante di sostegno, per esempio dipendente, in campo sanitario, per 1/3 dall'estero. 

 

Nelle manifestazioni antimacron erano sventolate anche bandiere russe, ed era noto ufficialmente che il governo golpista aveva assoldato come “istruttori” dei bianchi inquadrati nel “gruppo Wagner”, l'esercito privato di Putin.

 E vengo al punto.

 

Queste settimane, in Mali, segnano il culmine della stagione secca, cioè dell'innalzamento della temperatura, tra le 9 del mattino e le 17 per sopravvivere bisogna stare all'ombra, corsi d'acqua, sorgenti, pozzi sono in secca, le greggi brucano anche la sabbia, e tutti gli esseri viventi s'avvicinano al Niger per non morire di sete. 

Proprio in un villaggio di quella zona, Moura, vicino alla città di Djenné, che era sospettato di accogliere dei combattenti per uno stato islamico, probabilmente composto da schegge delle tante sigle che combattono e si combattono colà, dal 23 al 31 marzo, esattamente negli stessi giorni che a Bucha, è stata condotta un'operazione “antiterroristica”, con l'esercito maliano, ma “istruito” da bianchi che generalmente parlavano russo. L'operazione è stata compiuta “under western eyes”, nella persona d'una ragazza della ONG “human rights watch”, che la ha descritta.

Era giorno d'una fiera d'animali, con grande concorso dei pastori dei dintorni. 

Elicotteri da guerra hanno prima bombardato le povere capanne, poi hanno inseguito le famiglie  in fuga mitragliandole dall'alto.  Quindi si è dispiegata l'operazione delle forze di terra, con la direttiva di fucilare chiunque portasse la barba ( facendo un fascio unico di chi fosse non islamico, o islamico moderato, o affiliato ad una sigla ), o portasse pantaloncini (perchè tipici dei militari)o parlasse la lingua peul (perchè questo popolo di pastori del deserto, vittima maggiore della situazione di guerriglia, non si è abbassato a leccare la mano a qualche protettore interessato). La strage, ben organizzata dagli “istruttori”,

è stata perpetrata a piccoli gruppi, lasciando a terra chi dice 209, chi 400 corpi.

Proprio qualche giorno dopo, quando aveva parlato la testimone di Human rights watch” , questa ONG, insieme ad “Amnesty International” è stata espulsa da Mosca.

Ai 5000 crimini contro l'umanità,  contestati a Putin in Ucraina  c'è da aggiungere anche questo.

Pier Luigi Starace

 

FEDELTA' ANCHE NEI DETTAGLI

Nella mia riflessione sulla strage di Bucha mi sono ricordato d'alcune righe di “Cronache da due fronti” di Piergiacomo Sottoriva riguardanti l'operazione “Strangle”, cioè l'attacco alla linea di difesa tedesca Gustav, avvenuto tra l'11 ed il 20 maggio 1944,  da parte degli alleati, impegnando, tra l'altro, la V Armata USA  ed il corpo di spedizione francese, formato, a guida d'ufficiali francesi, da truppe tunisine, marocchine ed algerine. La Wermacht schierava soprattutto i Panzergranadieren e reparti di fucilieri. La zona dell'operazione interessava la fascia sud degli Aurunci, e gli abitati di centri come Spigno Saturnia, , Itri,Castelforte.

L'attacco travolse in 10 giorni la linea fortificata, e proprio in quest'ultima cittadina avvennero molti degli scontri decisivi. Le truppe magrebine impegnarono quelle germaniche in combattimenti addirittura stanza per stanza nelle singole case, e le armi bianche dei primi si mostrarono più efficienti di quelle da sparo dei secondi in quel corpo a corpo, costringendo i tedeschi alla ritirata. Fu proprio allora che alcuni di questi ultimi, come atto estremo d'ostilità , piazzarono delle granate o altri esplosivi sotto i cadaveri dei nordafricani caduti, in modo da nuocere a chi avesse voluto comporre o seppellire quei corpi.

Un attentato che sintetizzava, in uno odioso, i crimini di profanazione di cadavere e di tentata strage.

E'  quello che un altro esercito in ritirata, quello russo, ha perpetrato alla periferia di Kiev, insieme all'”abbattimento”di chiunque, dal vecchietto al ragazzino, trovasse sulla via della fuga. come per professare, dichiarare, esibire orgogliosamente al mondo la fedeltà devotamente pedissequa dell'armata putinesca al modello hitleriano, il sigillo, oltre gli altri innumerevoli, dalla sua nazificazione.

Nel rissoso, spesso velenoso, dissonante dibattito su questi crimini contro l'umanità, che alcuni chierichetti della “correttezza” preaggettivano con “presunti”, ho voluto cercare, con questo solo esempio, di far distinguere fra da un lato  il precedente storico, documentalmente e testimonialmente confermato dalle immagini riprese e dalle interviste di fonti terze, come ha fatto la nostra Francesca Mannocchi, e dall'altro le montature costruite col capovolgimento della verità, in costanza d'indefettibile fedeltà al mentire sapendo di mentire eretto a modo di produzione di notizie, a task professionale, ad abito mentale-

a modo di essere- come dimostrato generosamente da tutti i portavoce delle istituzioni e dell'informazione moscovite.

Pier Luigi Starace

 

STORIA DELLA BANDIERA UCRAINA

Per abbozzare uno sfondo storico all'attuale situazione di rapporti internazionali

emersa da settimane con l'aggressione autodecisa da Putin della Russia all'Ucraina,

mi sembra illuminante ricostruire sommariamente la storia della bandiera di questa

nazione.

Il suo simbolo, presente sulla bandiera presidenziale, che tutti abbiamo visto su

quella alla sinistra di Zelenski quando parla dal suo rifugio, è il cosidetto “tridente

ucraino”: una stilizzazione con due punte laterali identiche, poste specularmente, ed

una centrale, che si congiungono tutte e tre in basso, con un intreccio di linee.

La prima raffigurazione di esso risale al primo secolo avanti Cristo. La prima volta

che compare con una funzione politica è a Kiev, tra il 915 ed il 945, come sigillo del

principe Igor di Kiev, antenato di San Vladimir, in calce ad un trattato con

l'imperatore bizantino.

La prima bandiera d'un territorio ucraino riferibile alle successive, attuale inclusa,

appare nel 1410 come stendardo del voivodato di Rutenia ( odierna Ucraina

occidentale) sventolato nella battaglia di Tannenberg, della quale tratterò alla fine

dell'articolo. In esso compaiono i due colori classici, il giallo in un leone rampante,

ed un azzurro che diverrà in seguito blu.

Generalmente il giallo oro è stato interpretato come quello del grano, ed il blu con

quello del cielo.

Potrebbe essere un aggancio con la successiva bandiera, in cui giallo e blu listano

una figura di guerriero con tratti del volto, abbigliamento, armamento

inconfondibilmente tatari, e che veniva sventolata, dal 1649 al 1764, dai guerrieri

dell'hetmanato cosacco del Don. Infatti i tatari, come i mongoli, prima

dell'islamizzazione adoravano il Cielo.

Nel 1803 altri cosacchi, questa volta del mar nero, innalzano uno stendardo

gialloblù, ma con una crocetta greca rossa al centro, che oggi è sulla bandiera

dell'esercito ucraino, e, come tale, ma in grigioverde, sulla maglietta militare di

Zelenski.

Nell'animazione del 1848 , a Leopoli,i patrioti ucraini innalzano una bandiera con la

banda blu sopra e la gialla sotto.

Viene invertita la collocazione dei due colori in bandiere di varie repubbliche fiorite

in Ucraina dopo la rivoluzione sovietica, tra il 1918 ed il 1923, quando quel simbolo

viene vietato dai russi, e, a partire dal '50, sostituito da una bandiera rossa con falce e

martello giallo oro, con una striscia inferiore azzurro pallido.

Solo dopo il '91 l'Ucraina postgorbacioviana può ritornare ad innalzare i colori che

conosciamo bene.

Vengo ora alla battaglia di Tannenberg, perchè ricca di vistosi richiami alla

situazione odierna, come rapporti d'alleanza o di forza fra popoli e stati.

Fin dal 1220 i cavalieri teutonici, ordine religioso-militare ovviamente tedesco,

avevano portato avanti un'operazione di conversione delle popolazioni al di là della

Vistola, con la croce, ma preferibilmente con la spada, ovvero, in concreto, una ost

-politik di germanizzazione di un mondo slavo. Popoli come il polacco s'erano

cristianizzati, ma i bravi fratacchioni, tutti rigorosamente combattenti di cavalleria

 

corazzata, non intendevano trattarli da cristiani, bensì tenerseli sotto direttamente.

Allora, a guida polacca, si formò una lega, con cechi, moldavi, bielorussi, russi di

Smolensk e di Kiev.Due sole forze non erano slave, i lituani ed i tatari dell'orda

d'oro, cioè ancora degli abitanti dell' attuale Ucraina. I teutonici a loro volta vennero

affiancati da truppe d'etnia germanica, provenienti dall'Europa centrale, meno un

contingente ungherese, comunque il loro numero era inferiore a quello degli

avversari.

La mossa decisiva dello scontro, che pare fosse stata suggerita dal khan dell'Orda

d'oro, fu la ritirata strategica della cavalleria leggera lituana sotto l'urto di quella

pesante teutonica. Quando i monaci armati ritornarono sul campo a dar manforte ai

loro compagni dopo aver inseguito i lituani, questi ultimi si erano riorganizzati, ed

irruppero lanciatissimi nella mischia.

I teutonici, che erano impegnati a fondo dai polacchi, se la videro arrivare alle

spalle, furono circondati, ed il loro indubbio valore non riuscì ad impedire il trionfo

della coalizione quasi panslava.

Fu una battaglia sanguinosissima, nonostante le armi difensive molto robuste, il gran

maestro dei teutonici cadde sul campo, con molti dei diciamo ufficiali. Il re polacco

Ladislao II fu ferito gravemente. Il numero dei morti è stato molto dibattuto, ma al

minimo sui 15.000.

Questa battaglia rivelò all'Europa che gli slavi ed altri popoli più settentrionali non

erano solo abitatori di capanne sparpagliate nelle foreste, o di rassegnati agricoltori,

o di pastori delle steppe, ma sapevano organizzarsi come potenza militare, ed

addirittura battere la macchina da guerra germanica.

Per non aver tenuto conto di ciò Napoleone, Hitler e Mussolini si dovettero

mangiare i gomiti quando videro le loro disfatte alla Beresina, nella sacca sul Don, a

Stalingrado.

Eppure un altro si sta mangiando i gomiti più di loro, per non aver tenuto conto

dell'immane errore storico di essersi schierato, in una possibile Tannenberg odierna,

nella metacampo dove allora erano schierati i cavalieri teutonici, ma a capo di quegli

slavi che sono i russi, contro tutti gli altri popoli slavi.

Per non aver abbastanza valutato le possibili conseguenze del tradimento della

comune origine etnica.

Per non aver tenuto conto sia della qualità superiore del valore ucraino, sia del

pericolo che costituiscono per lui tutti i popoli slavi, bielorussi compresi ( i quali,

nel caso che Lukascenko si lasciasse trascinare nell' “operazione speciale”

passerebbero per il 99% al “nemico”), se la loro trattenuta volontà di lotta contro il

traditore dell'unità slava s'incendiasse alla fiamma dell'esempio dei difensori di

Mariupol e Kiev.

E c'è qualcosa di reale a confortare l'esistenza, la qualità, l'efficienza sulla vita

associata di questo spirito di fraternità slava. L'accoglienza straordinariamente

aperta, organizzata, infaticabile dei profughi da parte degli stati slavi. Ancora una

volta, come a Tannenberg, a guida polacca.

 

Pier Luigi Starace

L'anticristo col giubbotto

L'anticristo, personaggio concepito nei secoli da una creatività cavalcante sia il destriero teologico che quello mitopoietico, ha assunto vari segni identificativi, a seconda di chi e quando lo abbia evocato.

Ma su una costante sono tutti d'accordo.

L'anticristo non è tenebroso, ma luminoso, anche se è il nemico della luce; non è repellente, ma attraente, come un angelo di Dio, anche se incarna il diavolo; agisce non in modo terroristico, e neppure sgradevole, ma piacevole, anche se porta verso la rovina.

E' su questa base, spero “teologically correct”, che voglio collocare la mia interpretazione della figura di Putin, iniziando con l'agganciarmi a quella sua esibizione in quella specie di spettacolo circense nel Colosseo della III Roma, in cui al posto d'onore c'era lui, l'imperatore, a quelli riservati i suoi cortigiani, sulle gradinate la plebe, e sull'arena- fuori campo- il vero spettacolo su cui i presenti esultavano : le stratificazioni di macerie, cadaveri, suppellettili di povere case, resti di missili e bombe sulle città ucraine.

In quell' “evento”la cui organizzazione traspariva una sintesi tra il meglio delle tecniche propagandistiche nazifasciste e staliniane, con una spruzzatina di quelle contemporanee per i grandi derbies calcistici e concertoni, Putin aveva lanciato, non solo non senza un tono di religiosa sacralità, ma addirittura di personale commozione interiore, sulla massa dannata all'ovazione forzata, una delle frasi più sublimi del discepolo che aveva più compreso Gesù, l'evangelista dell'aquila:”Non esiste un amore più grande di quello di chi offra la vita per i suoi amici”.

La superficialità d'obbligo dei cacciatori di scoops, il logoramento nervoso dei rimbambiti dalle proprie chiacchiere in non stop, la presenza scarsa e poco incisiva nel dibattito opinionistico ( a parte papa Francesco) di uomini di chiesa, si è lasciata scappare un'occasione quasi unica d'approfondimento: la formidabile innovazione che quell'intervento del presidente giubbottato apportava alla figura dell'anticristo.

Putin aveva superato d'un balzo ogni precedente narrazione dell'anticristo, nell'arrivare a mettergli in bocca le stesse parole del vero Cristo. Un perfezionamento, d'un'audacia inconcepibile fin'allora, della potenza falsificatrice, capovolgitrice della verità, immanente al personaggio.

Quelle parole che, sulla labbra del rabbi di nazareth, preannunziavano la propria personale immolazione, e la fissavano come esempio per un'umanità futura, governata da Dio, viene brandito dal presidente a vita come mistica sferza per avventare all'aggressione, motivare alla sopraffazione, coonestare, giustificare, legalizzare, addirittura santificare -assumendo in pieno il sacrilego “Gott mit uns” degli atei nazisti- la strage e la distruzione mirate alla cancellazione morale d'una identità storico-etnica, ed all'eliminazione fisica d'un popolo glorioso.

La mano trafitta del Crocifisso è pervertita in indicatrice al puntatore del bersaglio d'un asilo d'infanzia, d'una clinica ostetrica, d'una fila di evasi dal rifugio per un pezzo di pane, d'una macchina con una bandiera bianca ed una famiglia a bordo.

Solznitsyn aveva scritto:”Chiunque abbia scelto una volta la violenza come metodo, è inevitabilmente costretto a scegliere la menzogna come suo principio”.

Assioma validissimo per Putin, basti pensare alle stragi ordinate ai suoi “poliziotti” per metterle sul conto dei ceceni, anche qui fotocopiando l'Hitler delle notti dei lunghi coltelli e dei cristalli.

Ma per lui è valido, forse più valido, anche l'inverso:”Chiunque abbia scelto una volta la menzogna come metodo, è costretto inevitabilmente a sceglier la violenza come suo principio.” Infatti: chi è imbrogliato reagisce male, e tu devi usare violenza per calmarlo. Più valido, dicevo.

Perchè è quando lo si tocca sulla menzogna, rivelandola pubblicamente, che Putin avverte “il peccato che non sarà perdonato”, e fa scattare il “deve morire”, come, tra chissà quanti altri, hanno sperimentato la Politovskaja e Navalniy.

Pier Luigi Starace

INTUIZIONE LINGUISTICA NON SERIOSA

-isco è un suffisso di diminutivo trapiantato tale e quale dalla lingua greca (menisco, pietrisco).

Probabilmente poco prima del '200, venne “allargato”, tramite la “e”, in -esco, e mutato di significato. Non più “piccolo”( menisco vuol dire “piccola luna”) , ma “relativo a, appartenente a, originario o proveniente  da”.

Tale innovazione d'uso avvenne pressoché certamente in Toscana, ed a partir da attorno il 1200. Esempio classico “francesco”, che non vuol dire “piccolo Franco”, ma “proveniente dalla Francia”, ed era il panno costituente l'oggetto del commercio dell'imprenditore assisiate Pietro Di Bernardone, padre del fondatore dell'ordine francescano, e di chissà quanti suoi colleghi fiorentini.

Infatti è proprio nell'urbe renziana che troviamo a partir d'allora una serie di famiglie, e tutte di peso, esibenti questo suffisso, che, in ciò, viene ad arricchirsi d'una sfumatura d'importanza, di distinzione nobilitante, d'arrogazione di prestigio: Albizzeschi, Aldobrandeschi, Brunelleschi, Pannocchieschi, Gentileschi, e mettiamoci anche il pisano Della Gherardesca, cioè il conte Ugolino.

Che ci serve come link per passare all'applicazione d'uso del suffisso dalle  grandi famiglie alla sfera della creazione poetica: dantesco, petrarchesco, boccaccesco, bernesco, boiardesco, ariostesco, tassesco, ed a quella della creazione figurativa: giottesco, masaccesco, leonardesco, raffaellesco, michelangiolesco, bramantesco, caravaggesco.

Il lettore nota che entrambe le serie terminano con l'inizio del '600, quasi tagliate da un colpo di mannaia, non potendosi allora ancor parlare di ghigliottina.

Infatti, per cominciar dalla prima serie, il poeta più affermato del '600 italiano, Giambattista Marino, non mi risulta mai gratificato di quel suffisso dagli studiosi successivi, come non lo furono  Giambattista Vico  o Pietro Metastasio.

Niente -esco per la classica triade Parini, Alfieri,  Monti; come per la notissima Foscolo, Manzoni, Leopardi. Qui è forte la tentazione di spiegarlo con il buon gusto dei critici: “foscolesco” avrebbe presentata la cacofonia dell'accozzamento insieme nella stessa parola di due “-sco” , “manzonesco” pareva calibrato per l'insegna d'una macelleria, “leopardesco” per occultare il pallido profilo del contino recanatese sotto l'immagine d'una scena di caccia tropicale. Me ne trovate uno solo tra tutti i poeti e scrittori italiani fino ad oggi?

Seconda serie, artisti figurativi. Dopo Caravaggio, identico vuoto, chissà, qualche timido innamorato del settecento veneziano può aver aggettivato un cielo “tiepolesco”, ma non ne ho la minima prova.

Non parlo di scrittori stranieri, se non per giustificare chi non si è mai lanciato nella creazione d''un “dostojevskiesco”.

In definitiva oso chiedere perdono a chi legge per esser slittato dal “non serioso”, nel “burlesco”.

 Pier Luigi Starace




IL NANO CALUNNIATORE


Putin ha detto che il riconoscimento da Parte di Lenin all'autonomia delle singole

repubbliche sovietiche, e, in esso, anche dell'Ucraina, sotto lo zar incorporata alla

Russia, fu un “errore”.

Lo spioncello oggi mascherato da zar non ha approfondito il fatto che il fondamento

ultimo di tutta l'azione politica di Vladimir Uljanov, colui che aveva vissuta

l'eliminazione fisica del fratello su sentenza d'un tribunale imperiale, era stato un

radicale, irreformabile, irriducibile antimperialismo.

E se avversava quello absburgico e germanico, quello inglese, quello francese,

quello italiano, che definì felicemente “straccione”, l'imperialismo contro il quale

aveva lottato faccia a faccia fino ad estirparlo era stato quello russo, quello dello zar.

Ed allora non poteva che concepire la forma dello stato che stava costruendo con le

formazioni organizzate degli operai e dei contadini se non come repubblica, la

repubblica dei soviet.

E nessuna repubblica può esistere senza autonomia, non esistono repubbliche

subalterne, di secondo grado, commissariate da una superiore.

L'”errore” era stato causato dalla coerenza al proprio antimperialismo. All'ideale che

era necessario scagliare nel fuoco della rivoluzione sociale tutto il ciarpame

del mito della potenza, del dominio, del primato tra le nazioni, mito che fino ad

allora, anche nella santa Russia, aveva ferocemente organizzato lo sfruttamento

delle classi lavoratrici, con gli intermezzi nei quali le si mandava a morire più

efficientemente che col lavoro: le guerre imperialiste.

Eppure, con incredibile contorsionismo, Putin ha tirato fuori la parola “repubblica” ,

per mascherare, agli occhi dell'opinione pubblica, in tale struttura politica, delle

bande armate di mercenari fatte infiltrare clandestinamente nel Donbass, territorio

ucraino.

In altre parole Putin sta violentando la parola “repubblica” al punto di coonestare,

con essa, la propria guerra imperialista, più intollerabile in particola per il mondo

slavo, perché perpetrata da un popolo slavo contro un altro popolo slavo.

Seconda calunnia, talmente offensiva che farebbe saltare su anche un bambino di tre

anni: l'Ucraina non può vantare un'autonomia, perché non ha una tradizione

patriottica. Una provocazione da curvista di stadio, un seppellimento

vigliacco della memoria di tanti eroi ed eroine che nei secoli, o da liberi o da

schiacciati dal giogo moscovita, avevano nutrito fino ad oggi, un amor di patria

sempre rinascente come le erbe della steppa a primavera.

Terza calunnia, Putin ha osato imputare all'Ucraina la complicità con i nazisti.

Se è vero che alcuni nazionalisti fanatici, esasperati anche dalle spaventose

vessazioni staliniane negli anni della collettivizzazione forzata, erano ridotti a

preferire la Wehrmacht ai russi, fu la popolazione ucraina a subire, insieme alla

polacca, le più inenarrabili stragi d'ordine di Hitler. Si parla di decine di milioni di

assassinati, sui quali Putin glissa leggero come un pattinatore su ghiaccio.

Resterà nella storia la risposta del presidente ucraino Zelenski:” Mio nonno, ucraino,

allora, ha combattuto nell'Armata Rossa contro i nazisti!”

Concludendo Putin sta tentando spudoratamente d'usare la storia per la sua

operazione, questa sì di modello nazista, di capovolgere la realtà per presentare gli

aggrediti come aggressori. O non diceva Hitler che attaccava la Polonia per salvare

la pace in Europa?

E lasciasse in pace Lenin. Un nano diventa ancor più ridicolo quando s'atteggia a più

alto d'un gigante.

Pier Luigi Starace




L'INVERSIONE MICIDIALE

Certi libri di storia riportavano una semplicissima tabella su un aspetto della rivoluzione industriale inglese. Due  serie di cifre,  accoppiate, : la prima indicava un anno, la seconda le ore giornaliere di lavoro in vigore in esso.

Partiva dal 1800, con accanto 15 ore, arrivava alle soglie del 1900 con 8 ore.

Tra questi estremi tanti valori intermedi, comunque ognuno sempre  minore del precedente.

La tabella non riportava la forza che aveva spinto in avanti quel processo: quella di quegli operai che, con riunioni, manifestazioni,comizi,  scioperi, scontri sanguinosi, di quei deputati che avevano raccolte, presentate in parlamento e votate le leggi che portavano il lavoratore da un dannato a morire di fatica prima dei quarant'anni ad un uomo che poteva sopravvivere, e per  anni,  dignitosamente, con la pensione, anche non lavorando.

In una parola quel “trend” era stato verso una umanizzazione del lavoro, che anche i regimi totalitari del '900, a parte i lager hitleriani e staliniani,  ed in parte  lo stesso capitalismo USA non trovarono necessario contrastare, e che era stata indicata da tutti i papi che si erano occupati di lavoro, a partire da Leone XIII.

L'inversione di cui parlo c'è stata invece dopo  e, lubrificata da paroline apparentemente innocenti- efficienza, flessibilità, esubero-dall'ammorbidimento sempre più cedevole dei sindacati, dall'innamoramento sempre più incontenibile dei partiti di sinistra per la la mistica imprenditorial-aziendalistica, dalla riscrittura dello statuto dei lavoratori da parte di “giuslavoristi” , come ufficialmente definiti, ma,  da quello che hanno scritto,  “giuspadronisti”, ha portato le ore di lavoro a quelle che sono oggi,  che ognuno di voi conosce, e che domani potranno ancora crescere.

Inoltre, sullo slancio di quella  migratoria,   un'altra ondata ha investito il mondo del lavoro, quella del “lavoro nero”. Ed è qui che l'inversione di marcia ha raggiunto livelli inconfrontabili col “lavoro in regola” nello sfondamento di qualsiasi barriera protettiva della dignità umana. Le famose 15 ore del tessitore del 1800 inglese rivivono nel terzo millennio tra i meloni o i kiwi dell'agro veliterno.

Sono venuto al punto, di cui al titolo: la micidialità di questa inversione.

Un incidente sul lavoro ha sempre e comunque come causa o almeno concausa uno stato di stanchezza. “Lavorare stanca”. Anche se questo titolo di Luciano Bianciardi oggi farebbe storcere il naso perfino ai sindacati. Quello stato psichico di lotta contro se stessi, di coraggio nel disprezzare la fatica, di timore d'essere licenziato se non ce la fai, produce  necessariamente un allentamento dell'attenzione a ciò che sta intorno o anche vicino, un minor timore del pericolo, o addirittura una sospensione temporanea del senso di esso.  Condizione ideale per l'incidente. Che può esser mortale quanto più la lotta è estrema.

Ora, la lunghezza dell'orario di lavoro è fisiologicamente, ergonomicamente, matematicamente causa di stanchezza estrema sul lavoro, quindi delle possibili conseguenze.

Un altro particolare. Sono incidenti sul lavoro a tutti gli effetti quelli avvenuti per andare e tornare dal lavoro. Chi guida una bici, una moto, una macchina ad un'ora impossibile, imposta dai turni schiavili del padrone, prima dell'alba, ancora intorpidito e stordito dalla fatica non smaltita del giorno prima, o a tarda sera, ubriaco della fatica della giornata, può perdere il controllo, e non per sua colpa.

Non ho scritto niente di strano o neppure nuovo, ma l'ho fatto perchè nel coro di voci che si levano sulla “strage di lavoratori” non ne ho sentita nessuna tirar fuori quanto ho cercato di dire qui.

Ovviamente ritengo sacrosanto invocare le misure di prevenzione, ed a carico dei datori di lavoro, i maggiori controlli degli ispettori del lavoro, gli interventi della magistratura contro il supersfruttamento e privazione di diritti, per esempio dei riders, ma ho cercato d'andare più a fondo.

PIER LUIGI STARACE  




Riflessioni su “scuola-lavoro”


Le recentissime manifestazioni studentesche in occasione della fine violenta dello

studente friulano in una fabbrica collaborante con un istituto scolastico

hanno per la prima volta fatto schizzare alla luce dell'opinione pubblica qualcosa di

tutt'altro che nuovo, su cui mi pare importante parlare seriamente.

Anni or sono ebbi occasione di entrare in un locale di lavoro in uno di questi istituti,

ed alla fine chiesi se gli studenti che vi lavoravano, e che con ciò producevano

qualcosa che la scuola vendeva ( in quel caso latticini) fossero retribuiti.

“No” mi risposero gli insegnanti.

In seguito ho saputo che tale rapporto di lavoro era diffuso a livello nazionale, non

so se sempre e dovunque: nel caso qualcuno volesse obiettarmi con casi in cui gli

studenti -lavoratori sono retribuiti, sarò felice di prenderne atto.

Una premessa.

Ritengo che questa integrazione pratica alla teoria sia, in sé e per

sé, indiscutibilmente ottima, perché nulla prepara ad una futura attività meglio della

pratica.

Il punto discutibile può essere invece: è giusto non retribuire un lavoro produttivo,

cioè che io studente-lavoratore investa il mio tempo e la mia energia per aggiungere

valore a dei materiali che tu istituzione venderai incassandone del denaro, e che io

non debba aver niente di quel danaro?

La spiegazione del “sì” che un economista potrebbe esprimere potrebbe essere:” E'

giusto, perchè l'imprenditore ti rende il servizio di prepararti al lavoro, e non vuole

neanche essere pagato, quindi zitto e buono”.

A questo punto il dibattito poterebbe continuare all'infinito, e quindi preferisco

chiuderlo, per calarlo da un mondo teorico al “qui ed ora”.

Qui ed ora, a partire da un livello sociale anche alto, è diffuso l'impoverimento, il

che vuol dire, ai livelli sociali più bassi, un passaggio dalla ristrettezza alla povertà,

ed addirittura dalla povertà alla miseria.

In altre parole sempre più famiglie cominciano a veder svuotato il portafoglio prima,

o molto prima, della fine del mese.

Se la famiglia ha un figlio iscritto ad un istituto superiore si trova davanti un

percorso ad ostacoli, in parte imprevisti, per superare ognuno dei quali deve pagare.

Libri voluminosissimi e costosissimi, in gran parte inutilizzati, tasse d'iscrizione in

crescita, quote per partecipare a gite scolastiche e varie altre iniziative. Se i figli

sono più di uno, la cifra x va moltiplicata.

L' unica misura ufficiale, per venir incontro alle famiglie meno abbienti, è quella del

rimborso delle spese per l'acquisto dei libri; per esperienza personale (non a

Velletri) soprattutto dopo le misure anticovid, le difficoltà di presentazione della

domanda e per seguirne l'iter, quindi di conoscere la durata del tempo per ricevere il

rimborso si sono dimostrate insuperabili, quindi questo ammortizzatore sociale

funziona poco.

A fronte della soprascritta serie di esazioni s'erge quel paragrafo della Costituzione

che sancisce la gratuità dell'istruzione pubblica. E, sulla base di questo così

disatteso, e non solo adesso, principio, mi sembra di buon senso cogliere l'occasione


dell'attenzione sul tema “scuola-lavoro” per riparare, almeno in parte, alla

situazione.

Esistono ministeri, e di grande peso, ai quali attingere una quota d'un anche

modesto salario a questi ragazzi: oltre al capofila, quello della Pubblica Istruzione,

quelli della attività produttive, dello sviluppo economico, e magari qualche altro.

La quota integrativa dovrebbe esser fornita dal datore di lavoro che fruisce della

prestazione dello studente-lavoratore. A parte tante ragioni di carattere morale,

civile, sociale, ce n'è una economica: quasi tutti gli imprenditori sono, come nota

Travaglio, “prenditori”, cioè fruitori di grossi aiuti statali che concorrono alla

formazione del loro profitto privato: ora che questo danaro pubblico, che è quello

delle nostre tasse, venga usato per un fine pubblico è inoppugnabilmente

cosa equa, socialmente utile, totalmente armonizzata a quel primato del bene

comune su ogni altra considerazione, che anima la Costituzione.

Ad uno sforzo di buona volontà che certo non manderebbe in malora lo stato-come

molti ancor più certamente salterebbero su a preconizzare- corrisponderebbe un

vantaggio collettivo difficilmente misurabile : il ragazzo che, se bencreato, sente

come naturale e necessario, a sedici-diciottanni, lo slancio d'esser elemento trainante

dell'economia familiare, di risparmiare al povero papà l'angustia della richiesta di

danaro, e non può farci niente, con questo anche piccolo salario potrebbe pagarsi da

solo la ricarica telefonica o l'abbonamento all'autobus per andare a scuola, offrire la

pizza alla ragazzetta,

comprarsi un libro interessante. Ed avrebbe anche la prova provata che la società, o

lo stato, o gli altri gli danno un valore, e non dovrà aspettare ancora chissà quanto.

Ed anche la famosa economia reale non avrebbe che da guadagnarci.



OSSERVAZIONI SU UN PUNTO DELLA LEGISLAZIONE ANTICOVID


Ho letto recentemente un interessante articolo di Giuseppe

Mommo, fondante la propria argomentazione su un principio di diritto dato per

scontato: la responsabilità penale è individuale.

Da qui muovo per passare ad altro argomento.

Il Decreto-legge del 21/9 /'21, N. 127, detta:” il personale..... privo della predetta

certificazione verde covid 19 al momento dell'accesso al luogo di lavoro...è

considerato assente ingiustificato fino alla presentazione della predetta

certificazione, e comunque non oltre il 31/12/'21....per i giorni d'assenza

ingiustificata non sono dovuti né retribuzione, né altro compenso o emolumento,

comunque denominati. “

Il Decreto-legge 19/11/'21, N. 165, detta ”Il personale privo del green pass al

momento dell'accesso al luogo di lavoro...è considerato assente ingiustificato e non

avrà diritto alla retribuzione o altro compenso fino al termine della cessazione dello

stato d'emergenza, previsto, ad oggi e salvo modifiche, per il 31/12/'21. “

Ciò premesso, a parte una contraddizione in termini nella considerazione di un

presente come assente, che si legge in entrambi i dettati, ed aggiornando sul termine

della cessazione dell'emergenza, che è stato già prolungato almeno al 31/3/'22, è

solo su un punto preciso che voglio portare l'attenzione.

Per forse la maggioranza degli impiegati, e senza forse dei lavoratori è abituale

arrivare a fatica a fine mese.

Tenendo presente ciò, e profittando del fatto che il primo DL citato è proprio di

settembre, il mese in cui incombono le spese per l'acquisto dei libri di testo, il venir

meno della retribuzione potrebbe portare, in caso di figli studenti, all'interruzione

della loro carriera scolastica, a tirare la cinghia negli acquisti alimentari, a disdire

impegni di mutuo per la casa o d'acquisti rateali iniziati, con relative conseguenze

anche sulla moglie .

Ad ottobre il nuovo vuoto porterebbe all'impossibilità di pagare le bollette di acqua,

luce, gas.

A novembre il terzo vuoto genererebbe necessariamente l'impossibilità di pagare

l'affitto, mentre solerti tecnici verrebbero a tagliare le utenze.

A dicembre il “salto” della tredicesima porterebbe già alla fame, mentre, magari per

Natale, diverrebbe esecutiva l'ordinanza di sfratto per morosità.

Dopodichè, a marzo qualcuno di loro potrebbe anche non arrivare, dopo una notte

sotto un cavalcavia o una rissa con altri homeless.

Il punto è questo: se è vero che quel lavoratore ha una responsabilità personale per la

sua renitenza, ergo in qualche modo, magari non così grave, può essere sanzionato,

quella moglie, quei bambini o ragazzi, quale corresponsabilità hanno nel

comportamento paterno, su quale fondamento giuridico devono esser puniti in modi

tanto degradanti?

Pier Luigi Starace










SCARCERAZIONE PER PATRIK ZAKI: 

NEL SEGNO DELLA GRATITUDINE


E' nel segno della gratitudine che mi urge di esprimere il sollievo, la soddisfazione,

il rifiorire in me, insieme a tanti, d'uno slancio di speranza.

Gratitudine verso chi?

Una delle espressioni più frequenti, a volte anche a sproposito, sulle bocche degli

islamici è “Hamdu lillahi”, “Grazie a Dio”, proprio come su tante di abitanti del

nostro sud.

E quindi permettetemi d'iniziare da questa gratitudine, traducibile, per chi non abbia

fedi religiose, ma comunque un'anima identica a quella di chi le ha, in un nuovo

fluire di speranza nell'umanità in generale, nella vita, nella condizione umana.

Poi gratitudine per gli animatori e partecipi della varia galassia d'iniziative, oramai

reiterate senza stanchezza da venti due mesi, a favore di Patrik. E cito solo, fra mille

altre, quelle, superiori ad ogni elogio, della città di Bologna, con la punta di

diamante del suo millenario Ateneo, che ha dimostrato al mondo fino a che punto,in

un'istituzione scolastica, degli insegnanti possano divenire più che padri, e dei

compagni di studi più che fratelli, di uno studente straniero. Di Amnesty

International, che ha condotta una delle sue più efficaci disseminazioni del proprio

principio costitutivo, l'adozione d'un prigioniero di coscienza. Di quell'anziano

venuto in bici da Padova a Roma per sollecitarvi i centri del potere.

Ancora per quei parlamentari che hanno trovato un punto di convergenza- come si

dice oggi- nel raccomandare al Governo di concedergli, nonché la cittadinanza

italiana, e per quei 200 sindaci italiani pronti a dare la cittadinanza comunale

onoraria a Patrik.

Per quei diplomatici che, muovendosi soprattutto fuori dai riflettori, hanno lavorato

per lui, ed hanno avuto il coraggio di stargli fisicamente vicini nei momenti di

decisioni giudiziarie.

Pure per quei giornalisti anche televisivi che hanno concesso a questo argomento,

ingombrante e scivoloso nel quadro dei buoni rapporti Italia-Egitto sul piano della

vendita di fregate e dell'acquisto di prodotti petroliferi, un certo rilievo.

E gratitudine anche per il giudice firmatario della scarcerazione, insieme a quelle

persone sia del potere giudiziario che esecutivo che hanno permesso questo atto.

Abnorme, intollerabile, scandaloso, sia formalmente che sostanzialmente, è stato il

comportamento dei poteri sopraddetti contro Patrik Zaki.Ma proprio perciò questo

atto d'umanità ha rotto inequivocabilmente quell'atmosfera, ed ha richiesto a chi ha

osato compierlo uno sforzo che non deve esser ignorato. In altre parole la

scarcerazione sottintende un giudizio sulla non pericolosità sociale, sulla non

probabilità per lui di reiterazione del reato, di manomissione di prove, di fuga. E

questo è molto, se non moltissimo; non deve esser ignorato nell'esultanza. Immagino

che in Egitto tutti i coinvolti nell'attacco a lui stiano interessandosi a fondo alle

reazioni del nostro mondo, soprattutto per calibrare la prossima mossa, il giudizio

nel processo di febbraio.

Se questo sforzo di de-demonizzazione di Patrik sarà apprezzato, se qualcuno di noi

dirà “c'è un giudice al Cairo”, se quell'atto servirà a rianimare la fiducia mondiale

nella sopravvivenza d'una legalità, affondante radici millenarie nei codici e trattati


del diritto islamico, e che era stata brutalmente calpestata in questo caso, come,

peggio, in quello di Giulio Regeni, inevitabilmente sia i giudici di merito che le

sopravvivenze sane del potere esecutivo saranno spinti, scagionando Patrik in sede

processuale, a dimostrare più completamente quello che potrebbe esser definito

“ritorno alla legalità formale e sostanziale” .

E qui s'inserisce il tema della cittadinanza italiana.

Forse nessuno più di me è entusiasta di questa iniziativa, ho firmato per sostenerla.

Però cerco di guardarla con gli occhi delle istituzioni egiziane.

Intanto abbiamo avuto un saggio di quale protezione sia stata, in Egitto, la

cittadinanza italiana per Giulio Regeni, cioè meno di zero. Lo sarebbe di più per

Patrik? Immagino che i “giudici pentiti”, che volessero scagionarlo, saputo che lui si

“scuderebbe” da loro sotto una cittadinanza straniera, potrebbero, quasi

naturalmente, sullo slancio promosso dal senso di “nemico della patria” che essi

ravviserebbero nel “Patrik cittadino italiano”, pensare in questo modo:” Bello, ti

abbiamo scarcerato, e tu ti vergogni d'essere egiziano? Allora ti condanniamo,

formalmente perché hai difeso i cristiani in Egitto, ma realmente perchè hai

rinnegato la tua patria “.

Forse l'incubo maggiore gravante sulla libertà ritrovata di questo ragazzo.

Pier Luigi Starace 8/12/'21


LUCE VERDE

Seconda settimana di novembre, foresta di Bialoweza. Lei non rispetta confini, si

estende quanto le pare in Bielorussia e Polonia. Anche storicamente quel confine è

poco rispettabile, perché queste due etnie avevano in comune l'aver aderito alla

confessione cattolica in un mondo a maggioranza ortodossa, poi addirittura l'essersi

fuse in un solo stato, e finalmente-cosa atroce- aver avuto il destino, proprio 80 anni

or sono, d'esser state quelle contro le quali l'aggressione hitleriana aveva perpetrate

le più radicali distruzioni, le più mostruose stragi, anche impiantandovi i peggiori

lager.

Ora i figli dei cattolici, della “grande Polonia”, delle vittime del nazismo, si

fronteggiano come i più inveterati nemici, con mascherature integrali, stratificazioni

di plastica dalla cima dei capelli a sotto i piedi. Ma, per il momento, i nemici,

comuni nemici, sono altri. Sono i singoli di quella inerme mandra di profughi che

ancora separa le due barriere armate.

Per ora sono loro il target, di queste truppe scelte, pronte a sparare contro gli

uomini, a spintonare con gli scudi donne incinte, ad aizzare cani-lupo contro

bambini. Sono pronti a farlo gli uomini di Lukascenko, se la mandra, per

disperazione, s'azzarda ad arretrare in territorio bielorusso, per tornare indietro. Sono

pronti a farlo gli uomini di Morawiecki, se la mandra, per disperazione, s'azzarda a

buttarsi contro i rotoli di filo spinato del confine, per entrare in territorio polacco.

Ed entrambi gli schieramenti, forse inconsciamente, come in una “location” ben

scelta per un film storico, effettuano un revival di quanto accaduto ottantanni prima

in quelle foreste. Ma le etnie sono cambiate: gli armati non sono più i germanici

delle SS e Gestapo, sono i figli dei massacrati un giorno da SS e Gestapo. Che non

se la prendono con dei tedeschi, e neppure con degli aggressori, ma con dei

profughi.

In quella striscia di terra di nessuno i due eserciti s'armonizzano a realizzare un

lager di sterminio, stanti gli ordini dall'alto per entrambi: vietato l'accesso a

chiunque, perfino alle organizzazioni umanitarie, ai giornalisti; vietato dare da

mangiare ai profughi, ospitarli, curarli. Criminalizzazione preventiva d'ogni atto

semplicemente di civiltà. Sospensione di tutti i diritti dell'uomo, compreso quello

alla vita. E' questa fotocopia delle disposizioni di Himmler per la Scioà che, per chi

la prova sulla propria pelle, ha un nome: Europa.

“La Polonia non è morta” inizia l'inno nazionale, composto nel 1797, quando quella

nazione era stata aggredita da Prussia, Imperi asburgico e russo, e spartita fra essi.

E' così che voglio iniziare il controcanto di quanto esposto sopra.

Il sindaco d'un villaggio della foresta, Kuznika, non s'è imboscato, ma s'è messo a

girare tra le migliaia di “gorilla” plastificati senza paura di nessuno, per mantenere la

civiltà contro la militarizzazione integrale: così che nessuno potesse dire che il

territorio a lui affidato fosse “terra di nessuno”.

In lui, la Polonia non è morta.


Punte avanzate dell'associazionismo polacco, semplici abitanti della foresta,

intellettuali impegnati, come una professoressa universitaria, e chissà quali altri non

emersi sotto i riflettori, hanno violato coscientemente la legalizzazione da stato di

guerra di crimini contro l'umanità come i divieti suddetti, dovuti all'ubriacatura

sovranista dei loro vertici politici, ed hanno trasportato e donato cibo, acqua, sacchi

a pelo, tende.

Mentre nelle altissime sfere nazionali e mondiali i ritenuti grandi scimmiottavano

quelli d'ottantanni prima coli loro giochini di violazioni di spazi aerei, accuse

reciproche, miserabili calcoli di popolarità, illudendosi di “fare grande politica”,

queste persone hanno preso in pugno la situazione in cui erano state cacciate, ed

hanno, pronte a pagare di persona, cercato d'imprimere una direzione a quella

situazione, essere soggetti e non oggetti di storia.

In tutti loro la Polonia non è morta.

L'abitante d'una casetta della foresta, come quella di Cappuccetto rosso, ha dotato

una lampadina d'un contenitore verde trasparente, e l'ha accesa, di notte,

semi aprendo la finestra in modo che ne filtrasse la luce.

Rischiava, come ottantanni prima uno che avesse aperto la casa ad un ebreo

fuggiasco.

La luce della speranza è stata vista da una famigliola di turchi, ai quali ha spalancato

la sua porta, e che ha ospitati da salvare, per cinque giorni. Turchi, i nemici storici

dei cattolicissimi polacchi, ma ora solo fratelli, da salvare, col coraggio dei veri

eroi.

In lui, non so perché direi soprattutto, la Polonia non è morta.

Pier Luigi Starace 14/11/'21




Esempi di credibilità

Il primo è stato dato da Giorgia Meloni, quando ha tirato fuori l'espressione, coniata da un giornalista inglese, e sulla quale si tutti sono buttati da destra, centro e sinistra da più di mezzo secolo, “strategia della tensione”.

Personalmente non l'ho mai usata, perchè mi suona come un modo per incartare

diplomaticamente il crimine politico più odioso: l'organizzazione e l'esecuzione,in modo che nessuno possa trovare chi l'abbia effettuata,  da parte d'un potere che vuole eliminare qualcosa che sente come pericoloso, d'un omicidio o d'una strage,  per poi attribuirla a quelli da eliminare, e passare automaticamente a liquidarli, o fisicamente, come fece Hitler con la notte dei lunghi coltelli contro  le Sturm Abteilungen, e quella dei cristalli contro gli ebrei, o incarcerandoli, come accadde quando i servizi segreti deviati da neofascisti misero le bombe alla banca dell'agricoltura, e se la presero con gli anarchici.

Se “strategia della tensione”significa altro, qualcuno me lo dimostri, e ne potremo discutere.

In attesa di tale correzione, proseguo.

Mi domando, e domando alla Meloni ed a tutti quelli che le hanno fatta passare quell'espressione, in quale modo tale strategia abbia anche un solo punto di contatto con un crimine, quello della devastazione della sede CGIL di Roma, la cui esecuzione è stata quasi ufficialmente annunciata ad una folla da Castellino, ed i cui esecutori sono stati ripresi da tutte le posizioni, e mostrati incessantemente da tutti i canali tv. Mancano al crimine in oggetto i due elementi necessario  per poterlo inscrivere nella tipologia avanzata dalla Meloni: il segreto assoluto prima dell'esecuzione da parte di chi lo preparava, l'  anonimità e l'irreperibilità  dei suoi perpetratori.

E' possibile fondare  un 'ipotesi su un vuoto più spinto? Sì, quando la stessa Meloni ha accozzato a quel crimine la ministra dell'interno Lamorgese.

Costei, con una superiore serenità, non ha, ch'io sappia, denunciata la Meloni per falso e calunnia.E   con ragione: infatti anche il più spregiudicato   dei PM non oserebbe squalificarsi fino al punto d'imbastire un'ipotesi accusatoria contemplante la ministra come mandante dell'assalto castelliniano.

Ma, a proposito di assalti, da settimane la Lamorgese era stata spintonata da Meloni e Salvini per la sua indegnità come ministra, ma senza il coraggio di proclamare fuori dai denti che il di lei crimine era, per loro,  aver salvato la vita a più di 30.000 profughi.

Il secondo esempio viene proprio da Salvini.

Jair Bolzonaro è il più competitivo con Trump in un'omissione di soccorso produttiva d'un numero di vittime  da Covid da vergognosi primato, è inoltre   tollerante e largamente complice dell'incendio della selva amazzonica, habitat naturale degli indios,  fonda l'ordine pubblico su squadre di polizia che sparano ad altezza d'uomo. Crimini che possono, e lo sono già in Brasile, esser catalogati come contro l'umanità, e/o strage, genocidio. Autorità religiose e civili nostre non lo hanno affiancato pubblicamente   quando è venuto in Italia. L'unico che gli è stato a fianco in una cerimonia ufficiale è stato Salvini, cogliendo l'occasione per una dichiarazione di antifascismo molto “credibile”, e piazzandosi, a pancia in fuori, accanto a  quello che, venuto a rivendicare radici italiane,  sta trattando il proprio popolo ed il proprio suolo come il più efferato nemico invasore.

Il terzo esempio viene ancora da lui e Meloni, stavolta in coppia, più Taiani.

Essi si sono armonizzati nel proporre come candidato alla presidenza della repubblica, come cittadino e statista d'esempio anche ai nostri figli e nipoti, come rappresentativo del genio  italico,un plutocrate,  pseudocrate, taumatocrate, bullocrate, cleptocrate, pornocrate, egocrate.

 

Il quarto esempio viene dal sindaco di Anzio Candido De Angelis.

Nel  1924, l'anno delle elezioni violentate dai fascisti e dell'assassinio di Matteotti,  la protervia del regime arrivò al punto di lanciare ai podestà l'idea di conferire la cittadinanza onoraria a Mussolini in ogni città. Il podestà d'Anzio aveva aderito.

Il cittadino onorario di Anzio fu il primissimo a massimo responsabile delle distruzioni e stragi da bombardamenti di quella città. Nell'atto di dichiarare  guerra agli USA, nel dicembre 1941, non credo che avesse pensato che la più forte potenza mondiale avrebbe avuto paura di lui, e non avrebbe reagito con le sue forze cento volte maggiori delle nostre.  Le bombe yankee furono la reazione necessaria a quella dichiarazione di guerra.Le decisioni dei generali degli States di distruggere determinati bersagli vennero dopo la decisione di Mussolini di mettersi, cioè di metterci,  contro di loro.

Candido De Angelis ha detto che nessun sindaco, anche comunista, aveva ami proposto la cassazione di quella vergognosa iscrizione del maestro, poi complice, di Hitler, fra gli anziati benemeriti. Bene. Ma siccome ha anche dichiarato che sta facendo i conti col passato; se non ora, quando?

Gli suggerisco modestamente di seguire l'esempio del sindaco  d'una città vicina alla sua, Latina, Damiano Coletta.  Egli ha proposto di sostituire  l'intitolazione del parco più grande di Latina, che era alla figura scialba ed opaca di Arnaldo Mussolini, con una a Falcone e Borsellino. La proposta è stata approvata dal consiglio comunale.  Non è caduto il mondo.

Il quinto esempio lo auspico solamente, e  si tratta ancora di credibilità, senza doppio senso stavolta. Si tratta ancora di sindaci, quelli di Velletri e Lariano, e di quello che avessero  fatto o pensano di fare, per giungere, in una faccenda  in cui c'entra anche la regione, che vede famiglie con membri disabili coatte a pagare onerosi tickets per continuare a fruire d'assistenza domiciliare, ad una soluzione che dimostri la loro credibilità.

Pier Luigi Starace 5/11/'21    






NON RABBIA, MA ESECRAZIONE

PIER LUIGI STARACE

Alle radici elleniche della nostra civiltà, nella religione olimpica, era venerato Zeus Xenios, protettore dell'ospitalità. Chi violava questa norma religiosa e civile insieme era esecrato da tutti quelli che avevano una fede e che erano cittadini.

Eschilo scrisse una tragedia, “Le Danaidi”, per esaltare la pietà verso perseguitati che imploravano accoglienza.

Secoli dopo di lui un rabbi ebreo predicò che ognuno di noi subirà un giudizio finale, quindi inappellabile, esclusivamente sul tema dell'ospitalità. ”Ero affamato, assetato, nudo, senza casa... e tu mi hai accolto/ o non accolto” e tutti sappiamo con quali diverse conseguenze.

In questi ultimi anni un giovane calabrese, di Mèlito Porto Salvo, ha dato un esempio d'ospitalità trascendente razze, provenienze, religioni. Per lui l'unica condizione perchè qualcuno fosse accolto, nella sua Riace di cui era sindaco, era trovarsi nelle condizioni descritte dal rabbi di cui sopra. Le centinaia di persone che riusciva ad armonizzare con straordinaria capacità organizzativa e carisma umano divennero migliaia quando da un lato generosi sostenitori lo e poi le stesse istituzioni ufficiali, dall'Unione europea alle prefetture al ministero degli interni finanziarono la sua iniziativa, che fu apprezzata ufficialmente in tutto il mondo.

Il 29/9 il tribunale di Locri ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni e due mesi di carcere.

L'inchiesta che aveva avviato la sua persecuzione era stata denominata con un vocabolo greco, “xenia”- che vuol dire appunto ospitalità.

L' opinione pubblica è stata largamente informata, soprattutto con immagini indiscutibili, dell'azione di Mimmo. Inevitabilmente la prima, e per molti anche ultima, reazione, sarà stata: l'ospitalità è un crimine peggiore dell'omicidio e dell'associazione mafiosa. Lasciamo perdere!

Non molti avranno la curiosità di approfondire IN CHE COSA si sostanziasse la criminalità latente nel condannato. Io l'ho fatto, leggendo la sentenza: aver concessa una carta d'identità ad una neonata, cosa alla quale anche i cani hanno diritto, con l'anagrafe canina, in modo che questa innocente, nata sul nostro suolo, non fosse trattata peggio d'una cucciola di randagia. Una “criminalità” già praticata da due figure di martiri al cui sangue dobbiamo la nascita della nostra repubblica, Don Pietro Pappagallo e Don Giuseppe Morosini: fare documenti falsi, allora come oggi al solo scopo di salvare vite umane perseguitate, ieri dalle SS e dai repubblichini, oggi dallo scarico di responsabilità di istituzioni. Mimmo Lucano, con questi “crimini”, proseguiva semplicemente la sua opera di salvezza con altri mezzi.

La sentenza non imputa a Mimmo Lucano neppur un euro di appropriazione

indebita, eppure lo condanna per “associazione a delinquere”. Mimmo ha detto che gli associati con lui a delinquere dovrebbero allora essere la prefettura di Locri ed il ministero degli interni, che gli avevano scaricato centinaia di casi d'accoglienza da risolvere. Credo che nella storia NON sia mai esistita un'associazione per delinquere- a parte quelle di matrice politica- non a scopo di lucro. Allora: che associazione a delinquere è? E' un sacco vuoto, ma che permette a chi glielo ha caricato sulle spalle, di triplicare gli anni di carcere accumulati per salvare persone con un timbro illegale, e, insieme alla non concessione delle attenuanti generiche, spiega l'entità enorme della pena irrogata, ed appesantita da atroci beffe come la condanna alla compagna etiope di Mimmo, e la grottesca pretesa di 800000 euro di restituzione di fondi gestiti, come se non avessimo tutti visto la quantità di persone vestite, nutrite, alloggiate, stipendiate, e le strutture realizzate con quanto ricevuto, senza un solo conticino bancario a lui riconducibile.

Vediamo ora chi deve aver o ha pubblicamente esultato per questa sentenza.

Quegli 'ndranghetisti che hanno lasciato i loro proiettili infissi nel portone d'una sede direttiva di Riace dell'attività di Mimmo Lucano.

Quei “vecchi credenti”, cattolici nemici di papa Francesco, e d'ogni faccia nuova incontrata dentro dei “sacri confini” coincidenti con quelli d'una parrocchia.

Quei militanti di “Forza Nuova” che avevano violato con bandiere nere nazifasciste il perimetro di Riace in manifestazione mirata contro Mimmo Lucano.

Quei partiti- cui non concedo l'onore della citazione-per i quali Mimmo Lucano è il massimo cattivo esempio per i giovani italiani.

Non azzardo neppur iniziare la lista di chi ha vissuto, come me, questa sentenza come uno scandalo, a cominciare da magistrati, perché sarebbe troppo lunga, anche perché internazionale.

Ho detto magistrati, e ricordo che, come altri nella storia giudiziaria di Mimmo Lucano, perfino quelli della cassazione s'erano espressi, demolendo pezzo per pezzo la montatura contro il sindaco dell'accoglienza. Ricordo anche il sindaco di Napoli De Magistris, vecchio leone della lotta alla 'ndrangheta, che ci ha offerto l'immagine esaltante del suo coraggio civile d'abbracciare pubblicamente, a Riace, il condannato ad una pena infamante.

Per finire, il punto che sento più esecrando di questa sentenza è uno.

Che l'incommensurabile utilità sociale dell'azione di Mimmo Lucano sia stata non dico ignorata, o calpestata, o sottovalutata, ma semplicemente azzerata da questa sentenza, e che, in forza della condanna, a Mimmo Lucano sia stata, in automatico, attribuita la pericolosità sociale d'un omicida. Che un benefattore sia stato trasformato in malfattore. Che un esempio di vita che ha fatto splendere la nostra patria nel mondo sia stato sfigurato in quello d'un malvivente da cui la società deve guardarsi: a cui deve guardare con esecrazione.



Code e lotta di classe

di PIER LUIGI STARACE 

Banche, uffici anagrafici, ASL, inps, poste, e molto altro. Quando sto in queste code il mio orologio mi dice che il trend all'allungamento – in metri nello spazio, in minuti ed ore nel tempo- è in aumento, anche se nello scorso anno i “numeri” raggiunti dimostravano una crescita che, fosse stata del PIL, avrebbe creato la fama di grande statista al presidente del consiglio sotto il quale fosse avvenuta.

Mentre attendo il mio turno, non computo approssimativamente solo i minuti o le ore che mancano, ma faccio altri calcoli. “Eravamo 40 persone all'apertura, con uno sportello in servizio. Calcolando 10' a operazione ci vogliono più di sei ore. Se ne avessero aperto un altro ci vorrebbero tre ore. Se un terzo, un'ora e mezza. Quegli sportelli ci sono, ma fuori servizio.”

Gli impiegati anche dovrebbero esserci,ma la risposta è normalmente che sono a casa perchè malati o dove gli pare perchè in ferie. Reperirne qualcuno per affiancare quello in sevizio appare qualcosa di più complicato che arrestare un boss.

“Il tempo è danaro”, mi rintocca nella mente davanti allo scempio di esso tempo che sono coatto a consumare. M'immedesimo in un artigiano, un tassista, un idraulico che, in quelle ore trascorse a far niente avrebbero potuto produrre un servizio retribuito, per portare avanti la famiglia.

Poi m'immedesimo in un manager di qualunque dei settori elencati in apertura, e cerco di capire se, valendo anche per lui “il tempo è danaro”, anche lui si è fatto dei calcoli. Mi sento un po' indiscreto, ma ci provo. “Devo comprimere il costo del lavoro, quindi prima tagliare al massimo il personale, poi utilizzare al massimo il personale residuato. Le code sono un effetto collaterale che può non piacere a chi vi si trova, ma che, obiettivamente, sono innovazione, efficientamento, modernizzazione, dall'unico punto di vista che professionalmente devo assumere: far più profitti, da ripartire all'interno dell'azienda, pubblica o privata non fa differenza” .

Tutto ciò premesso, eccomi alla lotta di classe.

Normalmente per essa s'intende quella della classe oppressa contro gli oppressori, che s'esprime con scioperi, manifestazioni, sabotaggi. Ma esiste, ed è anche nata per prima, la lotta della classe padronale contro i lavoratori. Gli esempi più elementari sono le bande di picchiatori o addirittura di killers usate dai grandi capitalisti USA contro operai e sindacalisti, le serrate delle aziende, le leggi dettate da loro stessi industriali ai loro lobbisti seduti nei parlamenti.

Ma che c'entrano le code con questo? Vedo in esse l'effetto naturale e necessario d'una politica mirata, oramai da decenni, allo scopo che affascinava i primissimi schiavisti della rivoluzione industriale inglese, quelli che spremevano gli uomini in modo che a quarant'anni erano già al cimitero: creare disoccupazione. Perchè la disoccupazione è la gran madre dell'abbassamento dei salari, illimitato, generante automaticamente l'aumento illimitato del profitto dell'industriale, è la base di tutto per l'imprenditore.

Ai fini dell'aumento della disoccupazione, questa situazione di far lavorare sempre di più un numero sempre decrescente di quelli che hanno un posto, la mantiene alta. 

Limitandoci ai comparti che ho elencato in apertura, quante centinaia di migliaia di posti di lavoro si potrebbero creare assumendo impiegati “tagliacode”, lanciando sulla prima linea dello sportello a contatto col pubblico, in banca, in posta, all'anagrafe, “truppe” ausiliarie! Liberando il tempo dei poveri disgraziati che di code magari ne devono fare più d'una al giorno! Permettendo una “ripresa” realmente fondata sul lavoro!

Un ultimo dettaglio: l'aspetto classista delle code s'evince dal fatto che la larghissima maggioranza dei coatti alla requisizione forzata del proprio tempo è composta di persone delle classi inferiori. I ricchi, che si sentono umiliati ed offesi se dovessero incolonnarsi, per fare un'operazione bancaria o ritirare un certificato come bisognosi davanti ad una mensa charitas, hanno i loro agganci e le loro scorciatoie per evitare una simile umiliazione.




“SE NON PUOI PAGARE E' UN PROBLEMA TUO”.

 

Il 30 /11/20 i consiglieri comunali di Velletri, i quali, in legittima veste di legislatori, avevano stilato il “Regolamento distrettuale per l'assistenza domiciliare sociale, integrata ed educativa minori”, lo approvavano con 20 voti su 25.

A primavera gli interessati iniziavan ad esserne informati, ed attualmente esso è stato avviato alla fase attuativa.

Un punto, almeno, ha colpito, e nella tasca,  il centinaio di fruitori del servizio:

l'introduzione d'un “ticket” ( in italiano, e nel caso, una “sovrattassa sulla salute”): che una prestazione prima a costo zero ora è stata scaricata sul bisognoso e sulla sua famiglia,  già gravata da spese di cura e d'assistenza, con un'impennata da zero a 20 euro giornalieri, 700 mensili e via.

22 persone non possono onorare questo comma, e sono state costrette, certamente con parole molto diverse da quelle della mia titolazione, a rinunciare al beneficio, con le conseguenze sulla salute e la vita che anche un bambino capisce.

Non voglio adesso annoiare i lettori cui sono simpatico con eccessi di legittima difesa delle persone colpite dal provvedimento, e nello stesso tempo porgere materiale denigratorio a quelli cui sono antipatico; in altre parole voglio dire il minimo indispensabile.

Sacrosantamente molti hanno auspicato che il covid spingesse verso una nuova solidarietà verso soprattutto i più bisognosi ( detesto la parola “fragili”, perchè tanti presunti tali sono enormemente più forti dentro di tanti altri), ed un'eccellente occasione a questo fine sarebbe stata quella di sopprimere il vergognoso “ticket”. Non voglio definire, allora, per rispetto dei consiglieri, l'atto istituzionale di crearne un altro.

Un mese fa Enrico Letta ha forse involontariamente sollevato ondate d'opinione pubblica in difesa dell'intoccabilità dei patrimoni più cospicui, come se incidere in essi potesse inferire  un danno immeritato ai loro possessori. Non mi risulta, e sarei esultante di sentirlo, che qualcuno dei votanti a favore del regolamento abbia difesa l'intoccabilità finanziaria di famiglie  già  colpite dalle peggiori disgrazie.

Radici cristiane, si dice da vent'anni. Mi chiedo come mai esse non  siano riemerse imperativamente in consiglieri di tale matrice, denudando la sostanza squisitamente anticristiana d'un provvedimento che, anziché dare, chiede al bisognoso. E tiro dritto su quelli con radici di sinistra, o nè di destra né di sinistra, o addirittura della “repubblica sociale”, tanto avete già capito cosa direi.

Parlando politichese – me lo permetto qualche volta- osservo che il punto incriminato del regolamento è perfettamente coerente al trend che dal 1989 ad oggi è stato portato avanti con un'armonia prestabilita  nel mondo da governi di destra, di sinistra e di centro: prima  la demolizione, oggi l'asportazione sempre più scrupolosa degli ultimi brandelli di stato sociale.  

 Ovviamente mi unisco a piena voce a chi invoca la sospensione dell'applicazione di quel punto del nuovo regolamento, e concludo con un'amarissima constatazione. In un referendum popolare, quel punto avrebbe compattato i votanti in un no fremente e responsabile.

Pier Luigi Starace 26/7/'21




TRITTICO.

 

3.     Perché il silenzio?

Sono nato nel '38, da genitori cattolici impegnati, non solo nei quadri ufficiali dell'Azione Cattolica, ma in movimenti “dal basso”, ho conosciuto decine di sacerdoti secolari e regolari, qualche vescovo,  ho letto decine di fogli, riviste, periodici  della stampa cattolica, parlato con dirigenti di vari rami. Ma mai, neppure una sola volta,in questa ottantina d'anni, ho letto o sentito pronunciare, in quell'ambiente,  i nomi di Don Pietro Pappagallo e di Don GiuseppeMorosini. 

Vediamo CHI e COME ha ricordato Don Pietro.

Nel  '45 è Renzo Rossellini a costruire, con materiale tratto dalla di lui biografia, la figura del sacerdote di “Roma città aperta”.

 Gli viene intitolata la sezione dei partigiani dell'Esquilino- Monti-Celio.

Dopo oltre mezzo secolo, nel 1997 la giunta comunale Rutelli lo ricorda con una lapide a fianco della porta del suo domicilio di V. Urbana.  Nel  1998, il presidente della repubblica Scalfaro gli concede una medaglia d'oro al merito civile. Nel 1999 la Fondazione Carnegie gli dedica una medaglia d'oro, riconoscendolo “eroe”.

Nel 2000 Giovanni Paolo II lo include fra i 12692 “martiri della chiesa del XX secolo”.Nel 2006 la RAI  ricostruisce il suo sacrificio con lo sceneggiato “La buona battaglia”.  Nel 2012 gli è intestata una “pietra d'inciampo” come salvatore di ebrei, e, per lo stesso motivo, nel 2018, Israele lo proclama “Giusto fra le nazioni”.

Passo a Don Giuseppe.

Il 15/2/'45 gli è concessa una medaglia d'oro al valor militare.

Nel 1954 il corpo viene traslato da Roma a Ferentino,dove viene seppellito nella cappella-sacrario di Sant'Ippolito, ufficialmente riservata alle vittime militari. 

Sempre nel '45 ancora Rossellini introduce in “Roma città aperta” l'esecuzione di Don Giuseppe.

Nel 1997 Poste Italiane gli dedica un francobollo.

A Ferentino il comune gli dedica un busto, qualche lapide, un ITIS, ed anche il circolo didattico. 

 

Scorso il primo elenco, e notiamo che fra i “chi” istituzionali della chiesa cattolica apostolica romana che hanno ricordato il sacrificio di  Don Pietro, attribuendogli ufficialmente l'appellativo di “martire”ce n'è uno solo, Giovanni Paolo II. Trovo da un lato commovente che il resistente polacco alla Gestapo abbia, nello slancio di fraternità con un compagno di lotta, lacerato dopo 57 anni il sudario di silenzio vaticano steso su quella figura; ma dall'altro trovo amaro e quasi derisorio che, senza una di quelle preparazioni lunghe e  capillari mirate alla ricostruzione ed all'apologia della personalità del canonizzato, nelle quali la chiesa è maestra, come per le santificazioni  di Pio X o di Maria Goretti, sia stato come gettato in una fossa comune, con gli altri 12692. 

Scorso il secondo elenco, non trovo nessun rappresentante della gerarchia della chiesa cattolica apostolica romana che abbia riconosciuto ed additato ufficialmente  il sacrificio di Don Giuseppe. Non ho potuto non mettere in relazione questo silenzio col fatto che nell'enciclopedia cattolica, edizione uscita nei primi anni cinquanta, sotto papa Pacelli, il nome di Don Giuseppe non venisse neanche riportato.

Ufficialmente Don Giuseppe è un “militare decorato” ,“una vittima militare”.

Onestamente le istituzioni militari specificano che Don Giuseppe era anche sacerdote. Trovo irresistibilmente scandaloso che al pietoso e nobile riconoscimento del suo sacrificio da parte di tali istituzioni, al loro orgoglio di rivendicarlo come uno di esse,  si contrapponga non solo il silenzio, ma la paralisi da parte di quelle religiose. Quasi che esse avessero da vergognarsi  che Don Giuseppe fosse un loro prodotto. Che le migliaia di presbiteri romani dell'arco di settant'anni non abbiano impetrato da chi di dovere che fosse innalzato, come un faro, uno di loro che aveva professato letteralmente il loro ideale : “sacerdos alter Christus” con tutto il suo sangue.

 

“La loro tomba è un altare” era scritto sulla lapide dei 300 eroi delle Termopili.

Lo stesso per i morti per la fede sepolti nelle catacombe, e venerati come martiri dall'attimo del loro sacrificio.

Non così per i nostri due martiri, nei luoghi di sepoltura a Terlizzi e Ferentino.

Se, come pare per Don Pietro, su iniziativa di corregionali, si avvierà un processo di canonizzazione, pare anche che da dieci anni, anche in quella sede,  la “guideline” anonima e non scritta, entrata in vigore fin dall'attimo dello spirare di lui, continui ad essere il silenzio nell'immobilità.

 

Ma questo silenzio non sfiora neppure l'altezza di due figure che, nel momento

in cui le istituzioni politiche si bipartivano tra i consegnatori del potere sul nostro popolo alla belva nazista ed i fuggiaschi verso Bari, e quello religioso si esibiva in contorsionismi diplomatici, Don Pietro e Don Giuseppe  si costituivano in esempi ai cittadini italiani contro l'aggressione militare nazista, ed in esempio a tutti i cristiani del mondo, eminentemente al clero cattolico d'ogni ordine e grado, contro la scristianizzazione integrale delle coscienze consumata al grido di “Gott mit uns”.

 

E questo silenzio non sfiora la forza dell'ammirazione che milioni di anime hanno provata per loro, e che spero provino, oggi, anche grazie a questa mia

commemorazione- non ufficiale, ma forse è meglio così.

 

Pier Luigi Starace

 

 

  

 

2.     Don Giuseppe Morosini

Nato a Ferentino nel 1913,  ultimo figlio di numerosa famiglia profondamente cattolica, adolescente entra nella Congregazione della Missione, un ramo delle opere di san Vincenzo de' Paoli che lo aveva particolarmente attratto.

Parallelamente agli studi teologici porta avanti quelli musicali, rivelando anche talento di compositore. E' ordinato sacerdote nel 1937.

Quando Mussolini, nel '41, idea l'aggressione alla Grecia, Don Giuseppe, non per altro che per lo slancio di condividere il rischio dei ragazzi spinti al fronte, si offre  volontario come cappellano militare, ed assegnato ad assistere un reparto d'artiglieria bergamasco in Croazia.

Nel '43, dopo il bombardamento alleato del quartiere San Lorenzo, viene richiamato a Roma, per assistere, nella scuola “Pistelli”, i ragazzi che erano rimasti senza tetto.

Dopo l'8 settembre e la deportazione degli ebrei del ghetto di Roma, Don Giuseppe inizia una rischiosissima attività, entrando nel Fronte Militare Clandestino, organizzato da Giuseppe  Cordero di Montezemolo, che coordina l'esercito italiano in armi contro i nazifascisti con i movimenti partigiani. Grazie al pentimento, senza virgolette, d'un ufficiale austriaco della Wehrmacht, incontrato in un ospedale, Don Giuseppe riesce ad ottenere una mappatura dello schieramento tedesco a Cassino.Come Don Pietro Pappagallo accoglie( nel collegio Leoniano) chiunque sia ricercato dalla Gestapo, e gli procura documenti falsi. Il Giuda che lo consegna a Kappler è un certo Dante Bruga, infiltrato tra  i partigiani di Monte Mario, che lo vende per  una somma enorme per l'epoca e le circostanze, 70.000 lire.

Il 4/1/'44 viene arrestato, e tradotto nella cella 382 di Regina Coeli.  Da subito gli viene impedito di celebrare la messa, ma non di recitare  ad alta voce il rosario, che riecheggia nel corridoio. Conforta gli ultimi giorni d'un  un suo compagno di cella anch'egli condannato a morte, che doveva avere un terzo figlio, componedo parole e musica d' una ninna nanna.

Sotto tortura non solo non rivela nulla, ma s'addossa anche imputazioni di altri, per salvarli, come l'amico Bucchi, arrestato con lui. Queste falsità lucidamente premeditate salveranno la vita all'amico, ed a lui costeranno la condanna a morte. 

Sandro Pertini ricorda che lo incontrò mentre usciva da un interrogatorio. Mentre il giovane socialista fissava il volto tumefatto ed illividito del sacerdote,

s'accorse che lo sforzo di sorridergli gli aveva fatto sanguinare le labbra.

Risulta che il papa Pio XII avesse invocato direttamente da Hitler che la sentenza non fosse eseguita, incassandone un isterico rifiuto.

La mattina del 3 aprile '44 Monsignor Traglia, vicario di Roma, varca la soglia di “Regina Coeli” per assistere li “suo” sacerdote. “Ci vuole più coraggio per vivere che per morire”gli dice Don Giuseppe, citando volontariamente o meno,   Majakovskij. Poi il prelato lo autorizza a celebrare la sua ultima messa.

Diversamente che alle Ardeatine, dove Kappler aveva tenuto morbosamente che  i fucilatori fossero solo tedeschi, quella mattina del 3 aprile '44, al forte Bravetta, il plotone d'esecuzione era formato da italiani.  Erano soldati della PAI, Polizia Africa Orientale, smobilitati da quel fronte dopo la perdita dell'ultimo brandello d'impero pochi mesi prima.

Traglia ottiene che Don Giuseppe non venga ammanettato, e possa benedire  quei giovani che per cui aveva finora vissuto, che era andato a raggiungere nel pericolo.

Poi il cappellano alza il viso verso l'alto:” Dio, perdona loro, perchè non sanno quello che fanno”.

Forse, in quegli ultimi secondi, prova la sensazione incomunicabile di pienezza suprema immanente alla sua vocazione: quella della totale  identificazione tra sé ed il martire del Golgota.

Dei dodici fucilatori, 10 rischiano di fare la stessa fine di Don Giuseppe. Riuscendo a sentirsi italiani, cristiani, o semplicemente uomini prima che

braccio armato della Germania nazista,    sparano volontariamente fuori bersaglio.

I due colpi, portati a segno da due ragazzi “disciplinati” non sembrano mortali.

Ed allora ecco il “fratello maggiore” prudentemente distaccato a supervisionare

l'operazione, lo SS, altri invece dicono un fascista.  pistola in pugno, che corregge quell'errore d'esecuzione.Aggredisce alle spalle il ferito, per finirlo con due colpi alla nuca.

E, per maggior sicurezza, col colpo di grazia.

Pier Luigi Starace 9/7/'21

       

 1.     DON PIETRO  PAPPAGALLO

Era nato nel 1888 a Terlizzi, da una famiglia numerosa. Fin da bambino aveva lavorato per aiutare il padre, cordaio, nella sua azienda artigianale, poi la madre lo aveva indirizzato verso il sacerdozio, con sacrifici economici personali, perchè allora la chiesa esigeva dai genitori dei seminaristi  un certo sostegno economico.

L'esperienza lavorativa lo aveva plasmato anche fisicamente, era un pezzo d'uomo dal viso aperto e lo sguardo fermo.

Ordinato sacerdote nel 1915, dirige nella sua Puglia un convitto di studenti, poi

lo troviamo nel seminario di Catanzaro, e finalmente, nel 1925, a Roma.

E' allora che nel quartiere Prenestino è in corso, ovviamente sotto controllo fascista, una sperimentazione di “cooperazione” tra capitale italiano e USA nel settore tessile, con la CISA VISCOSA. I tre “attori” s'armonizzano così bene nello sfruttamento degli operai, che Don Pietro scrive a Mons. Baldelli, vicario di Roma, denunciando dettagliatamente le loro condizioni di lavoro disumane.

Dopo neanche tre anni, nel '28, Don Pietro è sbattuto fuori da quell'incarico, e nominato vice parroco di San Giovanni in Laterano.

La sua casa di Via Urbana è aperta a tutti, specie ai giovani pugliesi immigrati nella Capitale.

E lo è molto di più dopo l'8 settembre, quando la fuga del re e di Badoglio offre Roma alla “conquista” delle SS e della Wehrmacht. Militari sbandati, resistenti di tutti i partiti, ebrei superstiti alla deportazione in Germania sono accolti come fratelli in Cristo sotto il suo tetto.

Chiedendone perdono a Dio, in una commovente dichiarazione scritta, Don Pietro collabora con la resistenza nello stampare, per questi proscritti dal regime nazifascista, documenti falsi, ognuno dei quali può salvare una vita.

Sulla primissima linea di questa controffensiva clandestina all'occupazione totalitaria del potere in Roma “città aperta” da parte degli sgherri di Kappler , Don Pietro è affiancato da un giovane conterraneo insegnante di lettere, militante del partito comunista: Gioachino Gesmundo. Entrambi sanno bene l'enormità del rischio che corrono, ed anche quanto sia imbarazzante, formalmente, quella sincrasia. Ma Don Pietro vede nell'ardore di quell'intellettuale per l'uguaglianza e la fraternità quello stesso che lo aveva spinto contro gli industriali succhiasangue, e Gesmundo vede in quel prete non un nemico storico, ma un leale, pulito compagno di lotta. 

Neanche 4 mesi dura la loro infaticabile azione salvifica: un certo Gino Crescentini, spia fascista della Gestaspo, dopo aver fruito dell'accoglienza di Don Pietro, sceglie la parte di Giuda, ed il 29/1/'44  lo fa arrestare.Anche Gesmundo è catturato. Don Pietro è posto nella cella n. 13.

Sottoposto alle torture meccaniche e psicologiche più brutali e raffinate, con Gesmundo,  come lui,  non cede. La tenuta della sua anima ben al di sopra dell'imbestiamento cui i carnefici tentavano d'abbassarla è provata dal fatto che, in cella, con un 'interpretazione  eroica del “prendete e mangiate, questo è il mio corpo” Don Pietro condivideva il proprio pane con i detenuti privati di esso come pena aggiuntiva.

La via crucis dei due detenuti viene bloccata di netto dalla decisione di Kappler  d'attingere alle celle  dei “politici” per consumare la rappresaglia hitleriana all'attentato di via Rasella.

Il 24/3 entrambi sono incolonnati e spintonati nella pozzolana delle Ardeatine.

Don Pietro, con la sua poderosa figura, attira l'attenzione di uno dei morituri, che osa invocare, negli ultimi minuti di vita, la sua benedizione.

Con uno sforzo sovrumano il condannato  libera la propria destra dai vincoli,  e, come un giorno il condannato  Pietro i crocifissori pronti col martello ed i chiodi, come un giorno  il condannato  Paolo il littore con la scure già sollevata,   con voce sovrumanamente ispirata, benedice, oltre i fratelli di pena, l'ammucchiata sordida dei fucilatori impazienti o agitati, ossessivamente stimolati, pungolati ed aizzati da Kappler.

Questa scena è stata descritta da un militare austriaco uscito dalla Wehrmacht,anche lui condannato a morte,  che era stato legato a Don Pietro per il polso, era riuscito a liberarsi nella confusione di condannati ed esecutori, e scappare.

Pier Luigi Starace 7/7/'21

 

 



COTTARELLI, L'INFERNO E LA RIPARTENZA

Carlo Cottarelli porta numeri, non chiacchiere. 

Ma per me ha qualcosa in più ancora. Ha avuto quella rara e fuori mercato onestà intellettuale di chiamare “inferno” quella china in cui sempre più cittadini del mondo, da almeno un trentennio, stanno slittando, sempre più in basso economicamente, socialmente e politicamente.

Ed ha parlato di “ritorno” da quell'abisso.

Ovviamente anch'io lo auspico.

Ma l'atmosfera mediatica nella quale sta celebrandosi, e stavolta sì a chiacchiere, la

“ripartenza”, mi sbatte in faccia troppi esempi che smentiscono una volontà di

“ritorno”, e gridano tutto il contrario :”Ricominciate a fare non solo come PRIMA,

ma PEGGIO di prima, così andremo nella giusta direzione, come abbiamo sempre

fatto nell'ultimo trentennio”.

Come fruste di cavetti d'acciaio mirate alle spalle nude dei variamente rovinati

dalla crisi da covid, sibilano con più goduta ferocia le più viete fra le parole che

hanno spinto sempre più in basso nell'imbuto infernale sempre più persone:

CRESCITA (quando gli intelletti sani parlano di decrescita), PIL (sessant'anni dopo

che Bob Kennedy ne aveva rivelata la fallacia come indicatore), EFFICIENZA,

COMPETITIVITA', PRIVATIZZAZIONI.

La prioritarizzazione pronta, cieca, assoluta, come a valore in sé e per sé della

digitalizzione plenaria, universale, totalitaria.

L'orgoglio aziendale ( Trenitalia) della NON -manutenzione. “I signori viaggiatori

sono pregati di assicurarsi per tempo che le porte dello scompartimento NON siano

fuori servizio”.(E senza scuse per il disagio).

Mentre milioni di fratelli d'Italia tirano avanti la famiglia cercando di camminare sul

filo di 500 euro mensili, la portaerei “Cavour” fila dalla west alla east coast del nord

Atlantico portandosi in pancia dozzine di F 35, per un valore monetario

corrispondente forse a più di quello d'una finanziaria.

Senza che le querele laceranti sul peso del nostro debito pubblico, le quali si levano

quando si parla di spendere una cifra dieci o più volte minore per il reddito di

cittadinanza, si siano levate per impedire il pompaggio di questo fiume di danaro

dalle nostre tasche di contribuenti prima, e dal fondo fiscale poi, verso quelle degli

apicali del complesso militare-industriale USA.

Chi ha azzardato d'incidere fiscalmente, sia pur di pochissimo, nel patrimonio dei

super ricchi, è stato trattato dalla massima parte dei parlamentari della repubblica

fondata sul lavoro come uno che, alla tavola dello sceriffo di Nottingham, avesse

proposto un brindisi in onore di Robin Hood.

Nell'atmosfera trionfalistica ben costruita da tutti i media le sofferenze di chi

è restato fuori non si vedono più. Ma resta, anzi si fa più solenne, austero, religioso,


il rispetto per le vere sofferenze che contano per le “persone serie”: quelle bancarie,

e quelle dei mercati.

Sulla proposta d'offrire la cittadinanza italiana a Patrik Zaki, avanzata

dall'avanguardia intellettuale italiana, e reiterata autonomamente da Adriano

Celentano, sia il nostro brillante ministro degli esteri, sia il prestigioso presidente del

consiglio dei ministri, sia il pensoso presidente della repubblica non hanno sgarrato

dalla linea di fermezza “non vedo, non sento, non parlo”.

Mentre pareva che tutti, meno Trump e Bolzonaro, avessero capito che bisogna

evitare le emissioni da combustione, il mondo motoristico tira dritto.

Su una curva cieca del circuito del Mugello in un micidiale assembramento di bolidi,

resta a terra il neanche ventenne elvetico Jason Dupasquier.

L'indifferenza verso la vita, professata da quella di chi vuole ignorare il futuro

del nostro genere continuando a inquinare NON per bisogno assoluto, ma per

“divertimento di massa”, è stata confermata da quella verso la vita spezzata di

Pasquier. Il divertimento deve continuare, hanno deciso, per celebrare un lutto del

genere ci sono modi diversi dalla soppressione della gara- soprattutto meno

dispendiosi.

In definitiva, tutte queste forme di “perseverare diabolico” conducono

necessariamente ad evocare l'inferno.

Senza però perdere la speranza, ogni volta che, in alto o basso, qui o altrove,

spontaneamente o organizzatamente, possiamo vedere esempi diametralmente

opposti a quelli elencati.

Pier Luigi Starace 6/6/'21


LEZIONCINA STORICA AD UN GIOVANE NEONAZISTA TEDESCO

Caro ragazzo,

non ti parlo da nemico, anche se ideologicamente dovrei esserlo, e neanche da straniero: risalendo la genealogia del mio ramo materno ho trovato più di un cognome germanico, quindi, quante generazioni fa non so, quel sangue ha cominciato a fluire nel mio.

Data di partenza di questa lezioncina : 1870.

Il re di Prussia  Guglielmo I, assistito dal suo primo ministro Bismarck, dopo aver, nel 1866, massacrato a Sadowa  l'esercito austriaco, si monta la testa, si sente imperatore al posto dello sconfitto, ma non spodestato,  Francesco Giuseppe, e, per esserlo veramente, attacca la Francia di Napoleone III. Gli va bene, perché i francesi sotto quel dittatore corruttore si erano infiacchiti, e Bismarck, a Parigi, incorona il proprio re col titolo d'imperatore, cioè Kaiser.

Costui è abbastanza soddisfatto, si ritira da Parigi, e si accontenta di togliere alla Francia l'Alsazia e la Lorena.

E' la nascita dell'imperialismo germanico moderno.

Che si sfoga in Africa, e mettendo in moto una gigantesca produzione di armi, specie corazzate.

Dopo due generazioni, nel 1914, il nuovo Kaiser, Guglielmo II, riparte.

Stavolta non si accontenterà di una nazione, neanche dell'Europa, lo scopo finale è il dominio del mondo. Lo appoggiano  ancora Francesco Giuseppe ed il sultano dell'impero ottomano. ”Modernizza “ la guerra con i sommergibili che attaccano anche navi passeggeri, ed i gas d'ogni genere, che a volte sono spinti dal vento contro i soldati tedeschi. 

Sai anche tu come è finita, nel novembre 1918: si sbriciolano i due imperi alleati, tramontano le tre dinastie imperiali, ed alla Germania battuta vengono tolti territori ed imposte enormi multe per i danni provocati con quell'aggressione.

Terzo tempo, 1939 : Hitler vuole la rivincita, e mira con ancor più arroganza al dominio del mondo. Anche se la Germania ha perse le colonie , ed ha come alleati solo il Giappone,  l'Italia, e qualche stato balcanico. La sua “modernizzazione” include bombardamenti di civili, massacri d'innocenti per solo scopo terroristico, la costituzione di corpi come le SS, liberi da ogni regola internazionale di comportamento, e il resto lo sai meglio di me.

Come sai che il sogno del III reich finisce con la Germania fatta in quattro pezzi, ognuno dei quali sotto un altro stato.

Il punto che m'interessa , adesso, è questo: Hitler aggredisce, dopo la Polonia e prima dell'URSS, degli stati che linguisticamente, e quindi etnicamente, sono

germanici. Il nome “Francia” è quello d'un popolo germanico, ed è prevalso, per definire questo popolo, sul substrato etnico-linguistico gallico. Come “Anglo-sassone” è definita la Britannia, nonostante il substrato celtico. E un'altra iniezione di sangue germanico le è venuta dall'invasione normanna, che ha posto sul suo trono re normanni. Gli storici romani dicono che i Batavi, cioè gli olandesi, erano popolo germanico, come lo sono i  fiamminghi del Belgio. La Norvegia e la Danimarca sono etnicamente  custodi del filone più puro, direi anche razzialmente, della germanicità.

 

Ebbene, caro ragazzo, Hitler ha aggredito e fatto massacrare, ovviamente a prezzo del massacro d'altri milioni  di germanici, i tuoi cari soldati della Wehrmacht  ed SS, milioni di militari e civili di sangue germanico.

Non ho finito. Mi permetti d'includere, per il motivo detto prima, anche i soldati USA, fra quelli d'origine germanica? Se non lo sai ti dico che negli alti gradi della US Army ci sono stati e sono cognomi tedeschi purissimi, d'immigrati.

Ed anche tutti quelli del Commonwealth, canadesi, sudafricani, neozelandesi, australiani? Quante altre decine di milioni di massacrati dobbiamo aggiungere?

Mi dici che Hitler pensava che tutti questi se la sarebbero fatta sotto e non avrebbero mai affrontato i tuoi eroi?

In definitiva: mai nella storia è avvenuta una strage di popoli germanici più grande di quella scatenata da Hitler.

Ed a questo era pervenuto dopo aver perpetrato qualcosa, ancora una volta, di mirato contro il popolo tedesco, la repressione contro la resistenza religiosa e politica, cioè l' eliminazione, in genere con la ghigliottina, per risparmiare polvere da sparo, di tutti gli uomini e donne che erano il nerbo morale della Germania.

Aggiungi anche questi al conto del più grande nemico storico del popolo tedesco.

Pier Luigi Starace 30/5/'21


DELLA  PROPRIETA' INTELLETTUALE


Più d'una volta m'era capitato, nell'adolescenza, d'ascoltare i mugugni di quegli amici della parrocchietta che avevano organizzato una recita, e temevano la “visita”  del rappresentante della SIAE ( Società Italiana Autori ed Editori), per sottrarci  parte del misero incasso.

Ci sembrava strano che il padron di casa, il parroco, non avesse il potere d'interdirgli l'accesso.

Una volta un mio familiare mi disse che un suo progenitore aveva acquistato i diritti d'autore del “Barbiere di Siviglia”, e che quindi ogni volta nel mondo si rappresentasse quell'opera, qualcosa gliene veniva in tasca.

In questi giorni il tema della proprietà intellettuale è esploso con la faccenda dei

brevetti dei vaccini, e mi pare proprio il caso di riconsiderarlo  a fondo, per evitare che questo serissimo argomento venga trattato con la superficialità e la cecità della rissa da stadio.

Assumo che l'essenza più profonda della creatività del genio, o scientifico o artistico, sia la gratuità del suo dono all'umanità. Che, per il genio,  la coscienza del possesso di quel lampo di divinità superi infinitamente il possesso di qualcosa di materiale.

Intendiamoci, è naturale che, anche eventualmente contro la volontà del genio, la società lo retribuisca fornendogli il necessario per vivere. E' anche naturale che, tra i modi per realizzare questo fine, sia contemplato quello di esigere del danaro in cambio d'un beneficio goduto grazie a quella creatività, che, cioè, si paghi per un libro, un concerto, l'utilizzo d'un brevetto a scopo industriale.

Ma è anche naturale che, proprio a questo punto, si tracci  una linea invalicabile.

Perché non è naturale che, venuta meno, con la morte del genio, la necessità di sostenere il suo corpo, e, reciprocamente, venuto a cessare  questo dovere dell'umanità verso di lui, del danaro continui a correre, all'ombra del suo grande  nome.

A correre verso chi? Degli eredi, che, magari senza muovere un dito, camperanno sui diritti d'autore vita natural durante? Verso degli arraffatori, o addirittura dei mafiosi  che si compreranno quei diritti, per elevarsi ancora di più economicamente e socialmente?

 

Come nel medioevo i teologi rimasti fedeli alla condanna di Mammona da parte di Gesù spiegavano la condanna dell'interesse bancario con l'innaturalità del fatto che delle monete metalliche potessero copulare fra loro per generarne delle altre, e che quindi, se con l'interesse ciò avveniva, questa moltiplicazione era opera diabolica, vedo nell'innaturalità di questo flusso di danaro in nome d'una persona che non c'è più a profitto d' altre persone a lui estranee un atto di culto verso Mammona. Un'affermazione intimamente anticristiana di fede nel dogma mai più d'adesso trionfante nella storia:” il danaro è la misura di tutte le cose”.

Un azzeramento dell'essenza del valore d'un uomo: “ quanto è stato grande per quello che ha creato conta zero, è con quanti soldi fa smuovere “dopo” che si misura la vera grandezza”.

Non è assolutamente irrilevante che l'erezione di questa  guglia nella skyline della città mondiale di Mammona sia stata concepita, e realizzata con implacabile pignoleria e spietatezza nell' United Kingdom di quando la borsa di Londra era il cuore finanziario del mondo, e da lì diffusasi in tutto il Commonwealth, tracimando poi ben oltre.

E vengo ad investire il punto sul quale si sta- mi pare troppo debolmente e distrattamente- discutendo in questi giorni.

All'idolo, al feticcio, al Moloc della proprietà intellettuale si persevera oggi  ad immolare  vittime umane, dopo, tra l'altro,  le vergognose ripulse dei plutocrati farmaceutici alle preghiere di Mandela d'abbassare il prezzo di certi farmaci.

E' un momento di verità. Si vedrà oggi se tutto il sistema, attivato da più d'un anno al massimo della “comunicazione”, dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, del complesso di tutte le ditte dell'industria farmaceutica, dei ministeri della salute di tutti gli stati, delle regioni, sta facendo sul serio o no.

E il punto dirimente sarà proprio quello della proprietà intellettuale.

“Proprietà”. Parola terribile. Pur riconosciuta come diritto in tutte le encicliche

papali dal 1891 ad oggi, in ognuna di esse ogni papa afferma che esso deve essere limitato quando al suo esercizio assoluto s'oppone un bene comune più importante.

Si vedrà se tutta questa mobilitazione mai vista è stata generata fin dall'inizio ed organizzata  poi dall'esigenza morale, civile e religiosa di salvare vite.

Ovvero se il target finale, quello vero, sia quello di  portare avanti il più grande business della storia, e che tutti gli attori in esso implicati o arruolati potranno esser flessibili su tutto,   meno che sull'ammontare del profitto che ognuno s'era  calcolato in partenza.

PIER LUIGI STARACE


PIAZZA  PULITA

Su Corrado Formigli e Paolo Mieli  avevo sempre mantenuto un giudizio positivo, che si è incrinato profondamente giovedì 29/4, allorché, a “Piazza pulita”, dibattendo il tema della richiesta d'asilo politico in Francia di molti  italiani perseguiti per “reati di terrorismo” negli anni ottanta, entrambi si sono schierati in modo vibrante contro quella  soluzione, e corrispondentemente, a difesa della correttezza del comportamento dello stato italiano d'allora in quell'operazione complessa definita “lotta al terrorismo”.

Vorrei ricordare a quei dioscuri dell'informazione, ma soprattutto al pubblico dei giovani, i quali, diversamente da me, all'epoca di quei fatti non erano neanche nati o erano ragazzi, che quella lotta ebbe un protagonista assoluto, necessario e sufficiente per la successiva “vittoria”: il “pentito”.

Era costui un membro d'una banda armata con sigla politica che, arrestato, si vedeva offrire dallo stato benefici processuali, fino alla liberazione, in cambio d'una lista di nomi di complici della stessa.

Questa era un'innovazione nel nostro codice penale, - che venne definita tecnicamente “legislazione premiale” - attinta da modelli come Tiberio, quell'”innovativo “ che, per aggirare il divieto del diritto romano di condannare a morte una vergine, aveva “risolto” così: “Beh, fatela violentare prima, e poi

ammazzatela”, o la regina Carolina di Borbone, la sanguinaria nemica dei rivoluzionari napoletani del '99, che avevano fondato il loro governo sulla delazione, ed onorati i delatori come padri della patria. Nel linguaggio carcerario questa figura era nota come “infame”, ed in quello popolare come “impunito”, vocabolo che, nella Velletri in cui bambino ero, stavolta, io, era l'insulto più sanguinoso che poteva essere lanciato.     

Non solo io, ma Rossana Rossanda con la rivista “Antigone”, giuristi come Luigi Ferrajoli e Stefano Rodotà, magistrati come Luigi Saraceni, parlamentari come Giuliano Vassalli, Marco Boato, intellettuali come Massimo Cacciari denunciarono l'imbarbarimento di una legislazione che conferiva ad un delinquente un potere enorme, e scarsamente limitato, di rovinare un'intera esistenza solo facendo un nome.

Sì, perché spesso la delazione non veniva saggiata su prove scientifiche, in omaggio ad una presunta sincerità del “pentito”.

Il peggio del peggio è stata un 'operazione, anch'essa animata da “pentiti”, per

criminalizzare quelli che si ponevano “né con le BR, né con lo stato”, e che costituivano, nelle fabbriche e nelle Università, il nucleo più intelligente, organizzato, efficiente di resistenza all'attacco del padronato nazionale ed internazionale ai diritti dei lavoratori: l'Autonomia operaia, di Toni Negri, Oreste Scalzone, Franco Piperno, e tanti altri. Gli autonomi, anche se le loro rivendicazioni erano spesso minimali, e se i loro mezzi di lotta erano scioperi e manifestazioni, vennero omologati ai brigatisti, con un abuso dell'imputazione per semplice “banda armata”, senza un preciso altro delitto, e nelle pene conseguenti. Preoccupavano lo stato più ancora delle BR, e lo stato agì in conseguenza. Se, anche sulla base delle argomentazioni dei giuristi di cui sopra, veramente degni di cittadini della patria del diritto, alle quali dovemmo allora e dobbiamo ancora la difesa serena di principi lesi dalla legislazione premiale, lo stato francese aprì le porte a richiedenti asilo politico, dovremmo guardar storto sia loro che il presidente Mitterand che le aprì?  

 

 Ecco, nonostante il sacrosanto richiamo quotidiano a conservare la memoria storica, quel che è stato spazzato dai due dioscuri via dalla piazza, che più che pulita, è rimasta vuota d'un pezzo fondamentale di storia di quegli anni. 

 

Impossibile ora, pur senza aprire un altro tema, non ricordare che fu proprio allora, in quello schiacciamento integrale dello stato sugli interessi del padronato, che iniziò quello scivolamento verso il basso, verso “l'inferno” di cui parla coraggiosamente Cottarelli, del lavoro nero di massa, dei “riders” puniti se perdono tempo a fare pipì, delle pensioni di 250 euro mensili.  

 

Ho scritto più sopra “vittoria” fra virgolette. E non solo per l'atmosfera di lutto nella quale operai, studenti, intellettuali che avevano degli ideali si trovarono sprofondati, vedendo le loro iniziative di lotta abortire in un'atmosfera in cui i rapporti di forza s'erano rovesciati.

 

Anche perché, qualche anno dopo, quando tracimò l'ondata di “mani pulite”, tutti poterono toccare con mano che cosa accadeva nei camminamenti sotterranei sottostanti alle torri di guardia dalle quali i preconi dello stato della “lotta al terrorismo”, Gustavo Selva, Leo Valiani, Bettino Craxi, Ugo Pecchioli, ognuno avvolto nella bandiera col simbolo del proprio partito, lanciavano prima  epiche sfide all' “eversione”, e poi assordanti “esultate” di vittoria.

Toccare con mano che cosa? I miei coetanei lo sanno anche meglio di me, per i ragazzi d'oggi lo dico io: in quei camminamenti i loro compagni di partito accumulavano da anni i doni in danaro che, con commovente generosità e continuità, il padronato, da essi così fedelmente servito, faceva scorrere verso di loro.

Per saperne di più, ragazzi, cliccate su “tangentopoli”, sperando che Google o altri ve la raccontino giusta. 

 

  Pier Luigi Starace 1/5/'21



MEGLIO NON FARLO SAPERE AI BAMBINI


“Progresso e civiltà hanno preso due vie irrimediabilmente divergenti, da quando sopra tutto la tecnica industriale si è consacrata alla raffinata trasformazione dei mezzi della guerra, che è inciviltà e distruzione per eccellenza. La capacità di distruggere (…) ci ha reso definitivamente barbari, ed ha distrutto tutte le residue conquiste della civiltà cristiana.”

Ernesto Buonaiuti, 1937  (alla vigilia  della seconda guerra mondiale)

 

 

Esistono dei fondi pluriennali per investimenti e sviluppo infrastrutturale per 144 miliardi. Il comparto militare è riuscito ad intrufolarvisi e succhiarne quasi 36 dei 144.

Anche nel budget del ministero per lo sviluppo economico ha messo le mani, accaparrandosene il 30%.

E poi succede che dobbiamo importare apparecchiature mediche per 9 miliardi, perché tutto questo flusso possibile di finanziamento per queste industrie utili alla vita ed alla salute, è stato assorbito da quello per spese mirate alla morte ed alla distruzione.   

Sotto Renzi le autorizzazioni governative all'export di armi made in Italy, molto appetite da regimi in guerra, sono state sestuplicate.

La commissione difesa presieduta dall'on. Giorgio Mulè ha ultimamente trovata l'unanimità nel decidere di attingere anche ai fondi europei anticovid per

il complesso militare-industriale italiano. Dunque il nemico non è più il covid, sono quei poveri disgraziati che saranno individuati come nemici dagli acquirenti di armi vendute da industriali armieri italiani.

( Quindi se gli ospedali continueranno ancora ad essere “tagliati” , ed i malati di covid rimasti con conseguenze invalidanti potrebbero non avere sostegni.  Già sappiamo cosa c'è sotto il “non ci sono più soldi” che i politici avranno il grugno di tirar fuori).

Mi fermo, ma solo un momento: se voi, come me d'altronde, non avete saputo niente di niente di questo dalla Tv e dai giornaloni, un motivo c'è: l'opinione pubblica di massa conta come quella dei bambini, e, anche per evitare “ bambinate” di qualche politico “folle”, la cosa migliore è blindare completamente l'informazione su certi argomenti.

Riprendo prolungando il raggio d'osservazione sulla realtà militare.

Pur confortati dal disimpegno USA in Afganistan, dobbiamo guardare con realismo a qualcosa che ha già prodotte recentissimamente due guerre su suolo europeo, le tensioni tra slavi: alludo a quelle tra Serbi e Croati culminate nella distruzione attorno ed in Sarajevo, e tra russi ed ukraini con gli scontri nel Donbass. Ebbene, il pur “moderato” Biden sta rischiando di lanciare un petardo in una polveriera grande come l'Europa, Russia compresa. Sto accennando al suo corteggiamento stringente dell'Ukraina per farla entrare nella NATO. 

Una volta effettuata l'operazione, basterebbe una fucilata sul suo territorio, e, a fil della clausola di sicurezza collettiva, art. 5 NATO, tutta l'Alleanza, Italia compresa, sarebbe scaraventata contro la Russia.

Ma c'è di peggio, e lo ha annunciato recentemente un portavoce militare USA.

Questa potenza ha prodotto missili ipersonici, cioè da 6 a 10 volte più veloci del suono, e, diversamente da quelli balistici, con una traiettoria non prevedente la salita nello spazio, ma una quasi retta, a parte la curvatura terrestre. Risultato:da un lato impossibilità d'intercettazione, e dall'altro riduzione del tempo di volo.

Già Romania e Polonia sono pronte ad installarli, e da lì in meno di 10 minuti potrebbero spazzare via Mosca.

Ce ne vorrebbero molto meno allo scopo, se la NATO decidesse di piazzarli al confine est dell'Ukraina.

Ciò premesso, la Russia non starebbe a guardare, e sapete quali potrebbero essere i bersagli d'una sua reazione, o attacco preventivo? Le basi NATO di Ghedi e Aviano. Il tutto, vista l'estrema riduzione dei tempi, verrebbe affidato ad intelligenze artificiali, le quali, spesso e volentieri sbagliano, quindi l'eliminazione di milioni di uomini in qualche secondo sarebbe un semplice “errore tecnico”.

Intanto, per mantenere un “range” di rispetto nella graduatoria dei “furbi” in questo campo, qualche sprazzo di verità è filtrato anche dall'informazione ufficiale, perché forse questi comunicatori che ci considerano tutti bambini hanno pensato che siamo anche così scemi da inghiottire in silenzio certe cose.

Ci ha fatto intravvedere un Di Maio “vuò cumprà” italiano su suolo egizio, che,  calpestando da un lato il cadavere di Giulio Regeni e dall'altro spintonando via con fastidio l'agonica speranza in noi di Patrik Zaki, testimonia il proprio patriottismo aiutando le imprese italiane produttrici di fregate e magari anche la bilancia dei  pagamenti. Senza dimenticare il contributo decisivo a mantenere in buoni rapporti il nostro paese con gli altri, da vero statista democratico.

La storia è lui, è Al Sisi, non quei due ragazzi.

Questa è la lezione fatta filtrare di chi ci tratta tutti da bambini.

Pier Luigi Starace 18/4/'21

 

 

 

  

Dante e papa Francesco

Dante rocker o perfino rapper, Dante testimonial d'agenzia turistica, Dante  rovinato dalla politica, un perdente...Mi fermo qui dopo un giretto nel supermercato delle commemorazioni. Per dir qualcosa che non ho sentita da nessuno ( ma spero sia stata detta),magari sui social media , alla cui frequentazione  sono allergico.

Dante era terziario francescano. Diciamo quasi un frate, per il voto di povertà che l'affiliazione al terz'ordine comportava. Soprattutto Dante a ciò  credeva sul serio. Nell'abitazione familiare fiorentina aveva delle camere a disposizione per

pellegrini o “homeless”, nel caso che qualcuno non avesse trovato posto nel pur tante che il vescovo, i parroci e gli ordini religiosi avevano allora  per onorare il comando evangelico dell'ospitalità.  

Scrivendo del suo esilio non si lamentò neanche mezza volta di aver dovuto convivere con “Madonna Povertà”. Nel suo poema traccia una biografia completa di San Francesco, profondendovi un'ammirazione che vibra solo in ciò che aveva scritto per Beatrice.

Ciò detto osserviamo l'aspetto complementare del suo amore per la povertà: la condanna del suo opposto.

Nel canto nono del Paradiso Folchetto di Marsiglia dice, alludendo a Firenze: 

 

                                  La tua città, che di colui è pianta

                                  che pria volse le spalle al suo fattore

                                  e di cui è la 'nvidia tanto pianta

 

                                  produce e spande il maladetto fiore

                                  c'ha disviate le pecore e gli agni

                                  però che ha fatto lupo del pastore

 

“La tua città, che è nata dal seme del diavolo, invidioso di Dio, conia e diffonde

il maledetto fiorino, che ha sviato il gregge dei cristiani, perché ha trasformato il pastore in lupo” .

Qui Dante istituisce un rapporto di filiazione tra Satana ed il danaro, in questo caso il fiorino, così detto perchè portava impresso il simbolo del giglio comunale. E' esso fiorino a produrre l'allontanamento  della società cristiana dalla retta via, perché il pastore, il papa, si è trasformato in lupo per l'avidità di quella moneta, offrendo un esempio comportamentale inevitabilmente di grande efficacia negativa. 

E che del papa si parli, oltre che dell'alto clero, è confermato, fra altri, da questi versi:

 

                                   del sangue nostro Caorsini a Guaschi

                                    s'apparecchian di bere

 

Di Cahors era papa Giovanni XXII, che aveva dichiarato esser falsa la tradizione della povertà di Gesù e degli apostoli, e fatto bruciare vivi quattro fraticelli francescani che lo avevano smentito, aveva estorto, con motivazioni religiose,somme enormi alla povera gente, per ridistribuirle come “benefici ecclesiastici” ad una cerchia di prelati gaudenti :

                                E la vostra avarizia il mondo attrista

                                calcando i buoni e sollevando i pravi

 e guascone era   papa Clemente V, “pastor sanza legge”,, , entrambi all'inferno come simoniaci.

Ancora a proposito del papa caorsino Dante osserva che aveva dimenticato San Pietro e San Paolo perchè devoto in modo assorbente a San Giovanni Battista: nel senso che sull'altra faccia della moneta gigliata era raffigurato quel Santo,  patrono di Firenze, con un'accoppiata poi imitata dalla repubblica americana allorchè avrebbe stampato sul dollaro “In God we trust”.

Dante spiega come la simonia, cioè la strumentalizzazione delle cose sacre al fine di soddisfare l'avarizia,  sia paragonabile a “bere il sangue nostro”:

                    

                                       già si solea con le spade far guerra

                                       or lo si fa tagliando, or qui, or qua,

                                       lo pan che 'l pio padre a niun disserra

 

“ Dio padre vuole che nessuno manchi del necessario, ed i simoniaci con le loro esazioni riducono la fetta di pane spettante a ciascuno, generando fame, come una guerra”. ( Meglio non si potrebbe sintetizzare la politica dei “tagli” odierni allo stato sociale) .

San Pietro stesso svergogna quei suoi successori:

 

                                        Non fu la sposa di Cristo allevata

                                        nel sangue mio, di Lin, di quel di Cleto

                                        per esser ad acquisto d'oro usata

 

Dante stesso immagina di chiedere al dannato papa caorsino:

 

                                        Deh, or mi dì: quanto tesoro volle

                                        nostro Signore in prima da San Pietro

                                        ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?

                                        Certo non disse se non “Viemmi retro”.

 

 Tenendo ferreamente ferma la barra sulla fondamentalità delle scelte di Dio come alternativa a Mammona annunciata da Gesù e ripresa in tutta la sua pienezza dall'Assisiate

                                          Fatto v'avete Dio d'oro e d'argento:

                                          e che altro è da voi all'idolatre

                                          se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?

 

Dante colpisce come massima manifestazione satanica la divinizzazione del l'oro. In questo seguito da Thomas More, e, più tardi, da Karl Marx.

Una icastica contrapposizione tra primissimi cristiani e loro sedicenti seguaci del primo '300:

 

                                          Venne Cefàs e venne il gran vasello

                                          dello Spirito Santo, magri e scalzi,

                                          prendendo cibo da qualunque ostello  

 

                                        Or voglion quinci e quindi chi i rincalzi

                                        i moderni pastori e chi li meni

                                         tanto son gravi! E chi dietro li alzi.

 

     “Pietro e Paolo elemosinavano, magri e scalzi, i prelati odierni sono così grassi che hanno bisogno di supporti laterali per camminare, e posteriori per esser issati a cavallo”.                                   

In quanto alla situazione nei conventi San Benedetto in persona viene immaginato a descriverla:

 

                                          Le mura, che solleno esser badia

                                          fatte sono spelonche, e le cocolle

                                          sacca son piene di farina ria.

 

                                           Ma grave usura tanto non si tolle

                                           contro 'l piacer di Dio, quanto quel frutto

                                           che fa il cor dei monaci sì folle

 

                                            che quantunque la Chiesa guarda, tutto

                                            è per la gente che per Dio dimanda

                                            non di parenti né d'altro più brutto.

 

  “Le mura della abbazie sono diventate spelonche (di ladri), ed i monaci sono come sacchi  contenenti  farina andata a male. Quei folli profittano di ciò che che è stato loro affidato solo per i poveri a vantaggio di parenti o peggio: e questo è peggio dell'usura. “

E Dante, lamentando che il clero stia trascurando il Vangelo e gli scritti dei Padri, nota che gli uomini di Dio abbiano maggiormente in bocca i commi delle Decretali, di ben sei libri, con le quali soprattutto i papi del suo tempo, avevano “grigliato” quello che ritenevano lo spirito della chiesa sulle strutture del diritto romano. Ed il veder un “alter Christus” trasformato in avvocaticchio furbetto e saccente che dimostrava quanti e quali diritti vantasse la chiesa, muoveva a sdegno il terziario francescano.

Riavvolgendo velocemente la bobina della storia del papato da papa Giovanni XXIII (non XXII !) fino a Dante, notiamo che pochissimi e molto timidamente  hanno  dato a San Francesco prima ed al vate tosco poi qualche  soddisfazione. Anzi, figure di figli di banchieri come il fiorentino Leone X Medici o il senese Alessandro VII Chigi pare che abbiano plasmato il proprio pontificato con la lucida determinazione di far anche peggio dei loro predecessori dannati da Dante.    Soprattutto per questo la rottura operata da Bergoglio m'appare d'una grandezza della quale mi pare pochissimi hanno oggi la coscienza che merita, e della quale si può scorgere qualche sprazzo sia nello scatenamento dei suoi nemici. Che qualcuno si preoccupi che questo piemontese di ferro possa davvero dar fastidio al Mammona di Wall Street, delle multinazionali e della finanza virtuale è qualcosa di positivo.

Pier Luigi Starace 4/4/'21  

 

Politica militare e trasparenza

 

Ho seguito il servizio di Riccardo Iacona di lunedì 22/3 sulla politica militare in generale, ed in particolare dell'Italia.

Da entusiasta di Don Milani, da partecipante alle manifestazioni degli anni ottanta contro l'installazione degli euromissili in Sicilia, a quelle contro le guerre dei Bush, da ammiratore e sostenitore di Gino Strada, mi sono sentito impietrare.

Dunque, dopo tutto ciò la politica militare effettuale largamente dominante negli stati-guida, quelli dove vi sono fabbriche belliche, è, da un lato spendere, con costante trend di crescita, in spese militari per rafforzare le proprie forze armate, e dall'altro incassare, sempre in crescendo, dalla vendita di armi prodotte dalle proprie fabbriche anche a stati dittatoriali oppressori dei propri popoli, o addirittura in guerra con altri. 

Dunque a quello spirito disarmista che un Gorbaciov e perfino un Reagan, sulla spinta delle massime autorità morali mondiali, religiose e laiche, e di centinaia di milioni di persone mobilitatesi, avevano notevolmente realizzato, si è dissolto nei “centri direzionali” della politica ed economia odierne.

Dunque, dopo imboccata la buona strada dello smantellamento concordato di strumenti di strage, è stato fatto un rovinoso scivolone all'indietro, fino al 1914,

quando, scimmiottando la “volontà di potenza” della Germania del Kaiser, ovvero ubriacandosi di nazionalismo, gli stati europei gareggiavano fra loro a chi spendeva di più in armi e militarizzazione degli abitanti, non preoccupandosi, ma eccitandosi che lo scontro fra essi avrebbe potuto disseminare la strage in tutto il mondo, come infatti avvenne. 

Dunque, come nel '14 gli acciecati dal “sacro egoismo” vilipendevano rumorosamente la Società delle Nazioni, oggi, sotto traccia, l'imprenditoria militare ed i suoi lobbisti parlamentari e ministeriali sbeffeggia non a parole, ma a fatti l'ONU. Ignorando o aggirando il divieto di vender armi a regimi che le usano contro i propri popoli, o, addirittura a regimi in guerra, anche d'aggressione.

Il silenzio sordo e certo ben retribuito dei media su cui galleggiano questi crimini, è integrato da un “cordone sanitario” di “segreti”, ognuno dei quali è formidabile nemico della trasparenza.Servizi segreti, segreto militare, segreto industriale, segreto aziendale, segreto bancario, segreto di stato. Segreto: l'arma irrinunciabile di tutte le tirannidi, l'elemennto più incompatibile con la democrazia.

Al riparo di questa blindatura a più strati si muove la politica militare, come Iacona ci ha mostrato, in Italia con un'agghiacciante continuità da un governo all'altro. Mentre molti eletti dal popolo stigmatizzano come insostenibile lo stanziamento d'un miliardo per un reddito che salvi dalla fame centinaia di migliaia di famiglie, una spesa militare di dieci miliardi viene accettato dagli stessi con fidente fermezza. Mentre i suddetti eletti tagliano posti letto ospedalieri, infermieri, ambulanze gli stessi trovano sostenibile l'acquisto di aggeggi uno solo dei quali può costarci miliardi. Mentre il buon senso, le radici cristiane e socialiste del nostro popolo vorrebbero che si attingesse al bilancio della difesa per salvare vite umane dal riflusso dello stato sociale, questi recettori della volontà popolare arrivano ad elemosinare da altri ministeri per rimpolpare quello della difesa. Per loro “svuotare gli arsenali e riempire i granai” non fa neanche ridere.

Per loro, che a volte fingono di piangere pensando ai posti di lavoro perduti se chiudessero le fabbriche di armi, non è mai esistita quella realtà europea dell'immediato dopoguerra: la riconversione delle fabbriche militari ad usi civili.

Per loro vale non la Costituzione o l'ONU, ma il principio -cardine di tutti i colonialisti, italiani compresi, per avere la botte piena e la moglie ubriaca: riempire le tasche dei nostri industriali, commercianti ed intermediari vendendo armi a paesi in guerra, e fare, in tal modo ammazzare fra loro tanti “indigeni”, liberando spazio per noi. Ancora, venderle a chiunque: la fine dell'Ambasciatore Atanasio ha mostrato la realtà d'un'Africa nella quale l'opportunità più facile e redditizia per un giovane è quella di procurarsi un'arma, ed entrare in una banda di rapinatori. E vale anche il principio che noi produttori e procuratori di armi a mostri come Assad o lo sceicco Salman non abbiamo ombra di responsabilità nei massacri dovuti a quelle armi, ergo il dovere   d' accogliere i profughi prodotti da esse: crepassero a casa loro, e se la casa è distrutta è un problema loro: il gruppo di Visegrad docet. Con una pernacchia a ciò che i nostri nonni fecero ancora in quel '14, ospitando i profughi serbi e belgi scampati all'aggressione dei Kaiser di Berlino e di Vienna.

 Ho visto con sdegno indescrivibile i bombardamenti dei curdi perpetrati con bombe italiane graziosamente vendute al massacratore morale e materiale Erdogan, e l'indicibile vergogna, in cambio di danaro, di rafforzare con fregate il potere militare di quell'Ad-Sisi che sputa e sogghigna sia sul cadavere di Giulio Regeni che sulle sevizie a Patrik Zaki, per dimostrare quanto sia illimitato il disprezzo che nutre per il nostro paese, e-peggio- per l'ONU e qualsiasi principio di legalità.

In conclusione penso che il quadro più generale nel quale si colloca questa vergogna micidiale, anch'essa pandemica, sia la fondazione reale dell'”ordine”

attuale nel “libero mercato”, come divinità suprema.

Se l'essenza dell'uomo è quella di vendere e comprare, nulla e nessuno deve sfuggire a questa legge. Tutto può e deve essere comprato e venduto a tutti da tutti, perché tutto ha un prezzo. Anche le armi, rispettabilissime perché hanno prezzi interessanti.  Ogni tentativo di calare dall'alto dei limiti a ciò si sostanzia in una sacrilega violazione del diritto assoluto del dio mercato, la sua “libertà”. O non si chiama “libero mercato”? 

Finché in alto ed in basso non verrà estirpata, come cerca di fare ad esempio papa Francesco, questa fede immorale, anticristiana ed antireligiosa sarà difficilissimo rientrare sulla buona strada del disarmo.

 Pier Luigi Starace 27/3/'21


NE' DI DESTRA NE' DI  SINISTRA

Premetto che baserò questo intervento su una posizione che generalmente viene definita “ideologica”. Chi crede alla fine delle ideologie passi oltre,

e guadagnerà quel vantaggio prezioso alla formazione culturale che è il non aver perso tempo dietro stupidaggini.

Per chi avesse deciso di seguirmi, prenderò l'argomento un po' alla larga.

A partir dallo “smuro” di Berlino tutto ciò che era “di sinistra” cominciò a puzzare di “comunismo”, di “ideologia”, di BR, a divenire decisamente sgradevole ed anche sospetto, sia in Parlamento sia nella vasta fascia d'opinione pubblica che in Parlamento ci mandava i deputati.

E così, da un lato per non passare per destrorsi, dall'altro per comunisti, e soprattutto per sentirsi al di sopra ed avanti alla vecchia classe politica, sempre più giovani leoni si sono proclamati con orgoglio “né di destra né di sinistra”.

Ebbene, a mio avviso ciò è molto più grave del peggior qualunquismo, perché la loro enunciazione è una “boutade” ingannevolissima. Non c'è nessun atteggiamento politico, nessuna legge i cui effetti possano favorire o colpire equamente sia la fascia superiore che quella inferiore della società, che non produca un rafforzamento d'una a spese d'un indebolimento dell'altra, che alteri il precedente rapporto tra loro, insomma che non sia o di destra o di sinistra.

Partiamo da un esempio generalissimo, la posizione sull'ordine pubblico.

Per la destra è un problema la cui risoluzione è affidata a manganelli, lacrimogeni, manette, pestaggi energici, processi stile “tribunale speciale”, e tanta, tanta galera.

Per la sinistra (quella vera) è un problema la cui risoluzione è affidata al mantenimento o rinnovamento di tutte quelle istituzioni di stato sociale che, come tubi fessurati d'un acquedotto, lasciano “drop out”, attraverso porte chiuse in faccia, non risposte ad invocazioni più che legittime, scarica barile tra uffici, persone che necessariamente, per la mera sopravvivenza fisica, dovranno delinquere, o rubando, o prostituendosi, o cercando la protezione della criminalità organizzata.

Più analiticamente mandare la gente in pensione oltre i sessant'anni, lasciar affondare i gommoni fingendo di non vedere, rinviare sine die l'introduzione del reato di tortura, abolire il minimo salariale, chiudere ospedali interi o reparti all'interno di essi, multare i mendicanti (vedi sindaci di Como e Genova) sono cose, oltre che della destra ufficiale odierna, della peggiore del passato. Chiunque le avvalli e voti si auto dimostra orgogliosamente di quella destra, ed incompatibile con la sinistra.

Il reddito di cittadinanza, l'apertura ed il finanziamento di dormitori pubblici anche per le migliaia di homeless italiani, una tassa sui grandi patrimoni, il curare gratuitamente chi è senza soldi (vedi Gino Strada), il gestire centri sociali accoglienti e valorizzanti chi è stato abbandonato dalle istituzioni, sono cose naturaliter di sinistra. Chiunque le pratichi e le voti si auto dimostra di sinistra, ed incompatibile con la destra. 

In conclusione, dal momento che la distinzione tra destra e sinistra è immanente all'intera realtà politico-economica, la divisa “né di destra né di sinistra” ha un solo senso: l'astensione dalla politica. 

I padri della democrazia, i Greci, quando individuavano, osservando la lotta politica dei cittadini, che si contrapponevano su una decisione, uno che non stava né con gli uni né con gli altri, lo chiamavano “idiota”.

Non era un insulto, voleva solo dire “individuo privato”, cioè che pensa solo a sé stesso, e sottintendevano che poteva fare quello che voleva, l'artigiano, l'attore, l'atleta, ma non l'uomo politico.

Oggi sembra che lo possa fare, pur con un “outing” esibito della propria “idiozia”, e raccogliere milioni di voti. È così perché lui dice di credere alla fine delle ideologie, e tira fuori liberamente dal sacco di destra e da quello di sinistra l'oggetto che, in quel preciso attimo, piacerà di più alla pubblica opinione. È così perché quest'ultima, che crede sul serio alla fine delle ideologie, lo applaudirà, e voterà.



FRATELLI  TUTTI

L' enciclica successiva, del 2020, d'inusitata lunghezza, 286 paragrafi, alcuni dei quali molto lunghi, squaderna un aspetto che ritengo dominante in Bergoglio, quello dello psicologo.

Non nel senso  di “ Psychologia ancilla theologiae”, ma semplicemente “fidei”.

L'anima dell'estensore appare configurata, in ogni atteggiamento, quasi in ogni frase, dalla straordinaria efficienza dell'assimilazione di quel principio singenetico alla nascita delle religioni, che è quello di ritenerle funzionalmente psicotrope, psicagogiche, psicoplastiche,psicoterapeutiche.

Non era forse Gesù un penetrante psicologo?

E, senza minimamente addarsene, per la francescana semplicità e chiarezza di linguaggio, Bergoglio parla da psicopatologo, psicologo del subconscio, psicologo familiare, psicologo sociale, psicologo del disagio, psicologo delle varie fasce d'età, psicologo dei conflitti, psicologo dei media. Vedo in

lui tesaurizzato, previo un rigorosissimo filtraggio di scorie, l'incalcolabile lascito esperienziale di decine di generazioni di confessori gesuiti, quelli che, tra l'altro, nel compito di cui s'erano investiti, di “ direzione spirituale” 

delle classi dirigenti, avevano in pugno quello della “direzione politica” della stesse e dell'intera società.

Filtraggio, ho detto. Perché, all'opposto d'ogni machiavellismo e  “gesuitismo” in senso tradizionale, anche Bergoglio mira alla direzione politica universale. Non per altro che per far tornare la chiesa alla costruzione del “governo di Dio” nella storia, senza di che l'incarnazione non avrebbe avuto alcun senso.

E' esattamente in ciò che vedo la “cattolicità” bergogliana.

“Quel “sopra a tutto e tutti”, imperialistico, arrogante, cogente, pesante come il corpo d'una regina sulle spalle dei portatori, che si stava dissolvendo nell'immagine plasmata da Giovanni e Paolo, ora proietta la chiesa “francescana” come immagine del tutto altra. 

Si fa il chinarsi trepido e tenero della madre, condensante in sé ed irradiante da sé la più alta concentrazione di bellezza nella verità e bontà,

di bontà nella bellezza e verità, di verità nella bellezza e bontà (non era questa la scansione trinitaria di Dio secondo Socrate e Platone?) sui “fratelli tutti” che la contemplano.

Una maternità che cerca di soccorrere, alleviare, guarire, imboccando ad ogni delusione nuovi percorsi d'anima creati dal suo amore.

Una maternità aperta a sintetizzare gli opposti estremi d'una concretezza precisa e d'una spiritualità altissima. 

Una maternità “cattolica” perché, volando sopra ogni steccato ideologico o confessionale, s'apre a tutti gli uomini, riecheggiando splendidamente l'”ut unum sint” giovanneo. 

 

Vedendo impossibile riassumere la complessità del testo, mi limiterò ad antologizzare, limitandomi, per il resto, ad indicare, nel capitolo secondo, una straordinaria esegesi della parabola del buon samaritano, che ricapitola analiticamente tutta l'essenza del cristianesimo.

“Diminuire l'autostima di qualcuno è un modo facile per dominarlo.”

“Chi innalza un muro resterà prigioniero di ciò che ha costruito”.

“Nessuno può sperimentare il valore della vita senza volti concreti da amare”.

“Cuori aperti attorno a sè”. 

“Cuori che si lasciano completare”.

“Uguaglianza, ma nella diversità”.

“Come se, accumulando ambizioni e sicurezze individuali, si potesse costruire il bene comune”.

“Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario, e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati”.

“Ogni paese è anche dello straniero”.

“La carità non ha un'unica metodologia accettabile, sono tante, e devono collaborare”.

Critica “l'organizzazione della società al servizio di chi ha già troppo potere”, “l'illusione neoliberista del “gocciolamento””, “la speculazione che fa strage”, ed auspica “una politica sana, non sottomessa al dettato della finanza”, un superamento delle politiche sociali concepite “verso i poveri” invece che “con i poveri”, un 'ONU “famiglia di nazioni”, una politica come “una delle forme più preziose della carità”, un “amore politico”.

Ancora: “le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi;  ”la pace sociale è artigianale”.

 

                                           CONCLUSIONE

Alla fine di questa rassegna di encicliche, una conclusione senz'altro discutibile, ma comunque possibile, e, per me, auspicabile: un'altra enciclica bergogliana, per la quale sono sicuro che tutti i materiali e le risorse umane già esistono, nella quale, con la magistrale capacità volgarizzatrice dimostrata da tutti gli estensori precedenti, venga descritto

analiticamente e completamente ciò che Paolo VI definiva “il meccanismo dell'economia moderna che porta verso un aggravamento, e non un'attenuazione, della disparità dei livelli di vita”, ovvero, come definito dopo, “sistema di peccato”.

E' vero che in tutte le encicliche vi sono guizzi d'illuminazione di singole parti di tale marchingegno, ma manca la visione totale di esso e del suo funzionamento.

Soprattutto riguardo ad esso il lettore prova l'impressione di forze fuori del controllo umano, impressione che è quella della stragrande maggioranza dell'opinione pubblica.

“Ciò che è stato costruito da mano d'uomo può essere distrutto da mano d'uomo”, ammonisce Agostino.

Per fare ciò – smontare, meglio che distruggere- il meccanismo, bisogna prima conoscerlo, e per conoscerlo spiegarlo, come quello del motore e del suo funzionamento a chi vuole vuole imparare a guidare.

Per spiegarlo bisogna tracciare con rigore scientifico la linea di demarcazione tra ciò che è naturale e necessario e ciò che non lo è, e che quindi può esser modificato o eliminato.

Tra la radiazione solare e Wall Street, tra il tempo di rotazione d'un pianeta ed il tasso di crescita d'un Pil, tra la temperatura del magma d'un vulcano e

la digitalizzazione universale.

E, per le scelte conseguenti, accanto al Vangelo- e non c'è bisogno di ricordarlo a Bergoglio, tiene una copia dell'opera maggiore di Thomas More.

 


LA PARTE  SOCIALE DELLA LAUDATO SI’ DI FRANCESCO

Già in copertina c’è scritto “casa comune”; nell’interno, tra le espressioni più reiterate, troviamo “bene comune”, “beni comuni”, “eredità comune”.

Francesco si sporca la bocca con questo aggettivo per evitare il quale, a parte una minoranza ridottissima alla quale rivendico d’appartenere, tutto il resto della gente, soprattutto i più acculturati, trovano sinonimi.

Passo alle citazioni.

Nei paragrafi 123 e 154 denuncia “la reificazione della persona” nel rapporto di lavoro schiavista. Nel 128 “ la riduzione dei costi di produzione in ragione della diminuzione di posti di lavoro”. Nel 189” il salvataggio a ogni costo delle banche facendo pagare il prezzo alla popolazione…il dominio assoluto della finanza, che non ha futuro…che segue criteri obsoleti”. Nel 109:” la finanza soffoca l’economia reale”.

Nel 190 attacca “la concezione magica del mercato”. Nel 109:”Il mercato da solo non garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale”.

Nel 56 “l’ambiente rimane indifeso rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformato in regola assoluta”.

Nel 38, a proposito dell’idea d’internazionalizzazione dell’Amazzonia “ :essa serve solo agli interessi delle multinazionali”.

 Nel 69, cita dal “Levitico”:”Le terre non si potranno vendere per sempre, perchè la terra è mia, e voi siete presso di me come forestieri ed ospiti”.

Nel 71:”Il dono della terra coi suoi frutti appartiene a tutto il popolo”

Nel 93:”La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata”. ( Vero, ma ciò non ha impedito a più pontefici d’affermare, della proprietà privata, l’origine divina.)

Nel 164 riprende lo strumento comunista della pianificazione, in opposizione all’attuale gioco del mercato.  

Proseguendo nell’arricchimento giovannèo dell’aggettivo “cattolico”, Francesco si rivolge a tutti, anche agli atei, nell’appello alla salvezza della casa comune. Non pone la chiesa come monopolizzatrice di quest’opera, e neanche egemone. Dovunque vedano uomini di buona volontà che agiscano in quel senso, egli invita i cattolici ad unirsi a loro, per aiutarli, per prestare un servizio, secondo il comando di Gesù a “chi vuole comandare”.


 

 



RERUM NOVARUM

La “Rerum novarum” di Leone XIII, il papa carpinetano, nel suo insieme contiene enunciazioni che remano contro quelle che trascriverò, come la condanna indiscriminata del socialismo, dell’associazionismo operaio non “cattolicizzato”, dello sciopero,la giustificazione della fatica come conseguenza del peccato originale, la naturalità della stratificazione sociale, ma soprattutto una santificazione della proprietà privata, a volte  contraddetta da limitazioni. Ma non è affatto un giudizio storico o religioso su questa enciclica che voglio pronunciare, quanto metter sa confronto certe affermazioni del 1891 con la realtà del 2020.   

“IL FRUTTO DEL LAVORO DEVE APPARTEBNERE A CHI LAVORA”. No comment.

“Il lavoro dell’operaio forma la ricchezza nazionale”. Non solo quello dell’imprenditore, dunque, come va di moda dire oggi!

“…doveri verso Dio assolutamente inviolabili. Da qui segue la NECESSITA’ del riposo festivo”. Conoscete qualche imprenditore così cristiano che almeno a Natale si ricordi di questo? Io no. Ne conosco di quelli che il primo maggio fanno lavorare più del solito.

“Il quantitativo della mercede non deve essere INFERIORE al sostentamento dell’operaio frugale e di retti costumi.” E il lavoro nero stratollerato, l’abolizione del salario minimo, i “working poors”?

“Defraudare la dovuta mercede è colpa così enorme che GRIDA VENDETTA AL COSPETTO DI DIO”. E chi, defraudata o meno, nei modi di cui sopra  ritarda di mesi la liquidazione della mercede, e si presenta come buon cristiano?

“E’ dovere sottrarre il povero operaio all’inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose”. Dimostratemi che qui il supremo magistrato del cattolicesimo NON condivida a fondo le intuizioni marxiste dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della reificazione del lavoratore.

“Non è giusto ne è umano esigere dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo…non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo  dipende dalla quantità del lavoro, dalle circostanze di tempo e luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai. Il lavoro dei minatori (…..) va compensato con una durata più breve. Si deve ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra del tutto insopportabile “. Segue una condanna del lavoro minorile, e dell’approfittare di quello femminile senza rispetto per la maggior delicatezza della donna.

Poi riprende una seonda volta:” In generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo necessario all’operaio deve esser proporzionale alla quantità delle forze consumate nel lavoro…Un patto contrario fra padrone e lavoratore sarebbe immorale, non essendo lecito a nessuno CHIEDERE O PERMETTERE LA VIOLAZIONE DEI DOVERI CHE LO STRINGONO A DIO E A SE STESSO”.

E le morti per fatica o per incidenti da fatica, gli orari che contemplano il salto della pausa pranzo, le ore di lavoro in numero doppio di quelle di sonno, gli ispettori del lavoro intimiditi e ridotti di numero, i minacciati di licenziamento se s’azzardano a denunciare questi crimini contro l’umanità?

Concludo con la constatazione della “ divisione della società in due caste, tra le quali è scavato un abisso. Da una parte una fazione strapotente perché straricca,  la quale, avendo in mano ogni sorta di produzione e commercio, sfrutta per sé tutte le correnti della ricchezza, ed esercita pure sull’andamento dello stato una grande influenza.”( Allora è vero che lo stato è il comitato d’affari della borghesia?) “Dall’altra una moltitudine misera e debole, dall’animo esacerbato, e pronto sempre a tumulti.

Ora, se in questa moltitudine s’incoraggia l’industria con la speranza d’acquistare stabile proprietà, una classe verrà avvicinandosi a poco a poco all’altra”.

Se la constatazione iniziale è validissima anche oggi, la conclusione propositiva no.

Dieci anni dopo queste parole già lo stato giolittiano si muoveva tenendo conto di esse, come poi avrebbe fatto il keynesismo, ivi compreso quello fascista, e lo stato assistenziale del dopoguerra: in una parola l’avvicinamento tra classi auspicato da Leone XIII s’era in vari modi realizzato.

Oggi che, a partir dal crollo del comunismo,  il trend di fondo del meccanismo economico mondiale è accelerare la spoliazione della superstite classe media e nello stesso tempo nella riduzione del numero degli “strapotenti straricchi”, in modo che ognuno di essi lo sia ancor di più, sarebbe penoso parlare di “avvicinamento”.

In questa crisi almeno papa Bergoglio fa due cose insostituibili : denuncia senza giustificazionismi  questo crimine anticristiano, e lotta ogni giorno contro la miseria che esso produce, a cominciar da quella della città di cui è episcopo.


“Centesimus annus”, il Woityla “Leone Pio”

Lo dico subito perchè, dando i numeri: le citazioni di questa enciclica woityliana  da quelle precedenti, incluse le numerosissime autocitazioni  dalle proprie, sono decine di Leone XIII, 7 di Pio XI, 7 di Paolo VI e solo 4 di papa Giovanni.

Altri numeri: il 100 è il  numero degli anniversari della “Rerum novarum”, il 2 quello degli anni trascorsi dall’abbattimento del muro di Berlino, simbolo di ciò che anche per la grandezza della fede di Padre Karol “era follia sperar”, l’abbattimento del comunismo.

Fin dall’inizio il toro è preso per le corna. “Lo sfruttamento è ormai sconfitto in Occidente, almeno nella forma descritta da Karl Marx.” Poi : “Se per capitalismo s’intende un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata, la risposta è certamente positiva”.

Nel nome di queste tre persone d’una trinità astratta, le ipostasi concrete delle quali sono l’imprenditore, il broker ed il banchiere, il Vicario dell’ideatore della parabola di Lazzaro e dell’epulone ha celebrato un battesimo storico.

C’è anche una tirata d’orecchi allo “stato assistenziale” (la cui colpa sarebbe d’aver obbedito alle precise indicazioni di Leone, di Pio XI, e soprattutto di papa Giovanni) perchè costa molto e non ha sensibilità verso gli individui. O quella denominazione puzza troppo di “stato socialista” , cioè di zolfo?

Nel solco di Pio XI dichiara “ impossibile la conciliazione tra marxismo e cristianesimo”. Poi “il comunismo ha radici atee” (anche quello degli Apostoli?”). La lotta di classe è paragonabile alla “guerra totale” ( uno sciopero per non crepare di fatica o di fame paragonato all’attacco dal cielo, dal mare e per terra della Wermacht alla Polonia?) “Chi si illude di poter costruire il paradiso in questo mondo trasforma la politica in una religione secolare. Ma qualsiasi società politica non potrà essere confusa con il regno di Dio, che verrà dopo il giudizio finale”. ( Ma Chi aveva annunciato che “il regno di Dio intra vos est” “?)

Poi i colpi alla botte capitalista. Riconosce che se alcuni s’accaparrano troppa proprietà privata essa sarà negata a molti. Al “che fare “ la risposta è “la chiesa non ha modelli da proporre”.( E San Tommaso More?)

Riconosce che il capitalismo produce ”un complesso di relazioni d’esasperata competitività e di reciproca estraniazione”, la negatività dei “nuovi bisogni indotti”. Sottolinea l’empietà della distruzione dell’ambiente. Poi un grande colpo, nel tono:” La proprietà dei mezzi di produzione diventa illegittima quando non viene valorizzata, o serve ad impedire il lavoro di altri, per ottenere un guadagno che non nasce dall’espansione globale del lavoro e della ricchezza sociale, ma piuttosto dalla loro compressione, dall’illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla rottura della solidarietà nel mondo del lavoro. Una tale proprietà non ha nessuna giustificazione, e costituisce un abuso al cospetto di Dio e degli uomini”.

Parole altisonanti, ma, in ognuno degli atteggiamenti condannati, la linea di demarcazione tra lecito ed illecito è estremamente, fluida, relativa, opinabile soprattutto flessibile ai supremi interessi della trinità capitalista. 

Un vuoto enorme: non una sola volta viene almeno citato il massimo fattore di sfruttamento dei paesi più poveri, e di aggressiva  sfida ai poteri degli stati: il capitalismo multinazionale.

 

Impossibile negare che anche questa enciclica abbia catalizzato l’ascesa politica  d’un Berlusconi, l’orgogliosa definizione dell’Italia come “azienda”, il volitar di Marcinkus di banca in banca.

Negare che non abbia influito,  su un più vasto orizzonte, a trasformare  quelli che nel patto di Varsavia si riconoscevano paesi fratelli, e che aiutavano quelli del terzo e quarto mondo verso l’”unum” d’una comunione globale, in stati capitalisti, in competizione fra loro, e poi, con l’additivo della “riscoperta identitaria” , a farli guardare in cagnesco, a creare faglie all’interno, fino alla scissione (Jugoslavia, Cecoslovacchia) , fino alla guerra ( ancora Jugoslavia, e poi Russia e Ucraina). Fino, un giorno a Visegrad, estirpare, in nome d’un cristianesimo solo storico, le proprie radici cristiane, nel segno odioso dello sbarramento delle frontiere ai profughi.

Come se la solidarietà internazionale fosse un inutile fardello del comunismo, del quale sgravarsi una volta per sempre, ed il cristianesimo un “collante-eccitante” per grandi adunate ubriacanti d’identità nazionale.